Laureatevi, ragazzi, laureatevi. Perché alla lunga paga. Ne sono convinti gli esperti che misurano il mondo del lavoro e i destini degli studenti italiani e, a sorpresa, non hanno dubbi nel dire che una laurea in tasca, nella maggior parte dei casi e nel tempo, se presa sgobbando con determinazione, porta più su e non solo nella scala sociale. Insomma anche i più critici, quelli che in questi anni hanno denigrato l'università italiana, che infatti si piazza assai male nelle classifiche internazionali (come indica il grafico di pagina 73), che hanno sparato a zero sui danni fatti dagli atenei che diplomano i ragazzi senza criterio e li hanno bollati come "fabbriche di disoccupati", sembra proprio che debbano ricredersi. Sotto il peso delle ultime rilevazioni Ocse: nell'arco della vita lavorativa i laureati hanno un tasso di occupazione di 10 punti superiore a quello dei diplomati; i guadagni di un lavoratore crescono al crescere del grado di istruzione, e tra i 25 e i 64 anni di età la retribuzione di un laureato è più elevata del 55 per cento rispetto a quella percepita da un diplomato. Così in Italia, come in Francia, in Germania e nel Regno Unito. E l'idraulico miliardario? Lo psicologo costretto a fare il commesso? Tutte e solo leggende metropolitane? Le statistiche, si sa, misurano la media e spesso si fa fatica a farle coincidere con le nostre esperienze quotidiane: annebbiati o meravigliati dai casi singoli che incontriamo, perdiamo di vista il mercato del lavoro nel suo insieme, fatto di milioni di persone. Ovvio che ci siano abissali differenze da disciplina a disciplina, che gli architetti e gli scienziati siano più in difficoltà degli ingegneri o degli interpreti; che ci siano discipline, come la maggior parte di quelle letterarie nelle quali sono il talento o la determinazione a fare più che mai la differenza. Eppure, è nei numeri: i laureati, in genere, se la cavano meglio.
Ma, nel nostro paese, al prezzo di anni di formazione, di lunghe e sfibranti attese, di frustrazioni su frustrazioni: ancora una volta sono i numeri a raccontarlo. Basta dare un'occhiata alle rilevazioni di AlmaLaurea che riassumiamo nelle tabelle di pagina 75. A un anno dalla laurea specialistica (ovvero dopo cinque anni di istruzione superiore) i giovani arrancano e le percentuali di occupati sono davvero basse, fatti salvi i professionisti della sanità dei quali l'Italia che invecchia ha sempre più bisogno. Poi, il salto: dopo cinque anni la quasi totalità dei giovani è piazzata. AlmaLaurea sono 12 anni che scruta il destino dei laureati di 60 atenei sparsi su tutto il territorio e a seguire i numeri raccolti nella gigantesca banca dati e snocciolati da Andrea Cammelli, professore di Statistica sociale all'Università di Bologna, che ne è l'anima, si aprono, mano a mano, una serie di finestre sulle criticità del sistema italiano dell'istruzione universitaria che coincidono perfettamente con l'arretratezza di un Paese premoderno che snobba il sapere e ha paura dell'innovazione; ma che sta cambiando proprio man mano che i giovani laureati entrano nelle piccole aziende e ne cambiano il volto.

Cinque anni di lacrime
AlmaLaurea fotografa: a un anno dalla laurea la maggior parte dei ragazzi è nei guai. Cinque anni dopo, i più sono a posto. Cosa accade in quei cinque anni? Alcuni, è vero, ciondolano in attesa che la famiglia si dia da fare per allertare amici e parenti a scovare un posto di lavoro decente, ma la stragrande maggioranza continua a formarsi: non solo i medici, che devono fare la scuola di specializzazione (per loro, come dimostra la scheda di pagina 8 nemmeno cinque anni bastano), o gli avvocati, che devono fare il praticantato come molti aspiranti liberi professionisti ai quali è richiesto un tirocinio (vedi le schede nelle pagine seguenti), sono la maggioranza i ragazzi che dopo la laurea continuano a formarsi, coi master, i corsi regionali o quelli proposti dai diversi ordini, e i periodi all'estero.
La pervicacia, ma anche la disponibilità economica a continuare la formazione sembra essere una chiave di riuscita anche in questi anni di crisi. Perché è una grave sofferenza quella che mostrano chiaramente sia il XII Rapporto di AlmaLaurea che l'indagine 2010 degli atenei Cilea: rispetto all'anno scorso, la disoccupazione a un anno dal conseguimento della laurea aumenta fra i laureati di secondo livello (quelli che hanno studiato 5 anni) dal 14 al 21 per cento e anche fra quelli cosiddetti a ciclo unico (medici, veterinari, architetti ecc) passa dal 9 al 15 per cento. Fanno eccezione i laureati del gruppo psicologico e geobiologico che, rispetto all'anno scorso, risultano oggi trovare lavoro più facilmente.
La crisi penalizza i giovani, è vero, ma, annota Andrea Cammelli: «La condizione occupazionale e retributiva dei laureati resta migliore di quella dei diplomati di scuola secondaria superiore». E il mantra resta sempre lo stesso: più ci si forma meglio è. A passarsela peggio, infatti, tra i laureati sono quelli che finiscono il ciclo triennale: l'anno scorso si definiva disoccupato il 16,5 per cento, quest'anno è il 22 per cento di loro a cercare inutilmente un lavoro. Il mercato li considera i più deboli, perché meno specializzati. Fanno eccezione soltanto le professioni sanitarie, che garantiscono anche a chi consegue una laurea triennale di ottenere un lavoro praticamente dal giorno dopo, spesso con un contratto a tempo indeterminato e una retribuzione superiore alla media. La fame che il mercato del lavoro ha dialcuni di questi professionisti, per esempio di infermieri, è tale che spesso i ragazzi iniziano a lavorare dopo i primi tre anni di università e si specializzano mentre svolgono già la professione.
Infermieri, odontotecnici, fisioterapisti: ragazzi con le idee chiare sin dall'inizio che fanno un corso molto specializzato e gli va bene, già dopo tre anni di studi. Ma, come mostra la tabella di pagina 79, le cose vanno diversamente per la quasi totalità di coloro che hanno conseguito la cosiddetta laurea breve. Tre anni di istruzione universitaria, insomma, non bastano. Ma anche dopo cinque la formazione deve continuare.
E i ragazzi di anno in anno, lo capiscono. Così decidono di proseguire ulteriormente la propria formazione: lo fanno il 73 per cento dei laureati nel geo-biologico e il 70,5 nel chimico-farmaceutico e il 60 nell'economicostatistico. E queste vie Crucis raccontano un dramma nazionale: chi entra all'università per lo più non sa cosa andare a cercare. Manca, come annota Pierluigi Celli nell'intervista di pagina 82, un anello di snodo che metta insieme scuole superiori, università e mondo del lavoro. Che faccia capire a un diciottenne cosa c'è là fuori, cosa serve a un datore di lavoro e come andarselo a conquistare. Tutto questo non c'è, così i giovani seguono, un po' a naso, le loro indistinte vocazioni, si iscrivono senza un criterio preciso e usano gli anni dell'università, spesso, per capire cosa vogliono studiare anziché per formarsi in maniera specifica.
In questo è evidente la responsabilità degli atenei che sembrano comportarsi secondo logiche autoreferenziali: lo annota con grande forza anche l'ultimo rapporto del Comitato nazionale del sistema universitario, l'organismo del ministero incaricato di stilare le classifiche degli atenei italiani a secondo dei parametri di eccellenza. La relazione del 2009 sottolinea, tra gli altri, un dato che giustifica da sé il disorientamento degli studenti: tra l'anno accademico 2001-2002 e quello 2007-2008 il numero di corsi proposti agli studenti è cresciuto dell'80,4 per cento, passando da 3.234 a 5.835. Non solo: di questi il 10,7 per cento hanno meno di dieci immatricolati.
Perché? La risposta di tutti è molto semplice: in primo luogo, le università italiane si sono sciaguratamente convinte che l'offerta formativa ampia, ancorché sgangherata, portasse studenti e prestigio. E, in secondo luogo, questa convinzione risponde a un'esigenza molto concreta: piazzare i professori. Pagati poco e maltrattati, ma negli anni molti atenei italiani si sono riempiti di studiosi che spesso tali non sono o non sono più, vivacchiano in istituto e per giustificare la loro esistenza mettono in piedi corsi magari senza che né il mercato del lavoro né il divenire del mondo della scienza li richieda. Ma non solo.
Non è un paese per laureati
In Italia ci sono 19 laureati su 100 giovani tra i 25 e i 34 anni, la stessa percentuale del Messico. Mentre la media dei paesi Ocse è di 34 su cento, in Francia sono 41 su cento, in Spagna 39, negli Usa 40 e in Giappone 54 su cento: sono i dati Ocse 2007, ma il ritardo è antico: tra gli italiani di 55-64 anni soltanto il 9 per cento ha una laurea, contro il 20 della media Ocse. E questi signori sono gli imprenditori, pubblici e privati. Sono, nel nostro Paese, quelli che mandano avanti le aziende e la pubblica amministrazione.
«Forse proprio questa diffusa soglia occupazionale di basso profilo è all'origine della difficoltà a comprendere il ruolo strategico degli investimenti in educazione e ricerca per lo sviluppo del Paese e per la competizione mondiale», annota Cammelli. Eppure, oggi stando all'indagine fatta da Unioncamere insieme al ministero del Lavoro nel 2009 il mercato del lavoro prevede di avere bisogno solo di 12 laureati su cento nuovi assunti, mentre negli Usa il rapporto è di 31 a 100. Perché allora allarmarsi del fatto che ci sono così pochi laureati? Se il sistema ne assorbe pochi, perché volerne fare di più? «Gli elementi che continuano a penalizzare la domanda di persone con titolo di studio universitario sono da cercarsi nello sviluppo ritardato dell'economia italiana, nella frammentazione della domanda di lavoro in unità produttive piccole e piccolissime (il 95 per cento delle imprese italiane) oltre che nella bassa scolarizzazione della popolazione di età adulta che riguarda anche imprenditori e dirigenti pubblici e privati», spiega Cammelli. Insomma guai a sdraiarsi sul fatto che il sistema chiede pochi laureati perché meno ce n'è più il sistema produttivo del Paese è destinato a perdere colpi.
Tutte le indagini sul mercato dei laureati indicano, però, che qualcosa sta cambiando. E grazie al ricambio generazionale che sta portando nelle stanze dei bottoni un numero sempre maggiore di persone istruite. Già nel 2007, la relazione annuale di Banca d'Italia spiegava che «il numero degli imprenditori con più di 65 anni d'età è sceso dal 37,4 per cento del 2002 al 24,4; mentre gli imprenditori tra i 35 e i 55 anni è salito dal 29,1 al 43,9 per cento». Non solo: a questo ricambio generazionale è corrisposto un aumento degli imprenditori laureati, passati dal 23 al 34,7 per cento. Ed è la stessa Banca d'Italia a sottolineare che se più laureati giovani entrano in azienda, maggiore è la probabilità che il sistema si innovi.
Un ventenne in azienda
Il trend indicato da Banca d'Italia si riscontra in un fenomeno virtuoso innescato da università e aziende negli ultimi anni e del quale solo oggi le rilevazioni scoprono l'utilità. Si tratta dei cosiddetti stage, i tirocini formativi previsti dalla riforma Berlinguer e che sono ora il vero marcatore della differenza: il fattore stage, infatti, aumenta di 7 punti percentuali la probabilità di trovare lavoro a un anno dalla laurea nella maggior parte dei percorsi disciplinari, è occupato il 64 per cento di chi lo ha fatto e solo il 57 di chi ha lasciato perdere. I ragazzi lo hanno capito e oggi il 53 per cento di loro conclude i propri studi con uno stage nel curriculum, tre volte tanto il dato del 2000. «Lo strumento dello stage è molto utile, ma va gestito al meglio sia da parte delle università sia da parte delle aziende», commenta Alberto Meomartini, presidente della commissione Università di Confindustria e di Assolombarda: «Le prime devono preparare i ragazzi allo stage e scegliere per loro l'azienda e l'esperienza più appropriate, le seconde devono essere ricettive nei confronti degli studenti e dialogare di più con gli atenei».
E di fatto questa attenzione da parte delle aziende comincia a esserci. «I segnali di una nuova stagione di riconoscimento reciproco e di collaborazione fra le forze più attente e sensibili del mondo universitario e il mondo del lavoro e delle professioni ci sono tutti», annota Cammelli. Ma l'accento torna ancora sulle responsabilità dell'università: sono le loro che devono aprire le porte alle esigenze del mondo del lavoro e sono i professori che devono scegliere e preparare i ragazzi.
È un nuovo impegno che non tutti accettano, e questo rischia di compromettere l'intero processo virtuoso. Da un'indagine promossa dalle università di Milano insieme a quella di Pavia e Assolombarda, infatti, è risultato che i giovani hanno in media delle buone conoscenze ma che sono scarsamente capaci a trasformare queste nozioni in pratica. «Mancano le cosiddette competenze », spiega Meomartini: «In particolare nei ragazzi appena usciti dall'università c'è scarsa propensione al lavoro di gruppo, alla risoluzione dei problemi e all'apprendimento sul campo. Tutte caratteristiche che un buono stage può favorire a formare».
Correre per vincere
C'è una sorpresa nelle rilevazioni che dettagliano quali laureati se la sono cavata meglio dopo un anno dalla laurea nel periodo della grande crisi. Tra il 2008 e il 2009 le imprese non solo, come ci si poteva aspettare, hanno assorbito meno laureati del gruppo economico-statistico (meno 30 per cento), ma hanno respinto, senza che nessuno se lo aspettasse, persino gli ingegneri (meno 38 per cento). Mentre hanno accolto i letterati (più 24 per cento). E, a man bassa, gli psicologi: più 154 per cento a dimostrazione che siamo una società sempre più sofferente, e non solo perché invecchiamo.
Gli ingegneri, sembrano indicare le statistiche, soffrono a causa delle imprese in difficoltà, ma forse c'è dell'altro. Un momento di disorientamento causato anche dalla Riforma del cosiddetto 3+2: ovvero il sistema attuale che indica un primo livello di laurea di tre anni (professionalizzante) a cui fa seguito il biennio della specialistica. «Riteniamo che la riforma non abbia ben interpretato la professione», spiega Giovanni Rolando, presidente del Consiglio Nazionale degli Ingegneri: «Chi sin dall'inizio vuole diventare ingegnere deve gioco forza passare per la laurea triennale e quindi per un corso di studi fortemente finalizzato alla pratica, mentre il vecchio corso di studi quinquennale insegnava un metodo più complessivo che in questo modo viene perso. La laurea di primo livello di fatto forma dei tecnici specializzati che possono lavorare nel campo dell'industria e dell'edilizia per compiere mansioni pratiche, ma non esercitare la professione di ingegnere».
Nessuno oggi sa dire cosa ne sarà a cinque anni dalla laurea degli ingegneri che si formano col nuovo sistema. È certo, però, che a chi è uscito dall'università cinque anni fa è andata bene. Così come è andata bene a quanti si occupano di progettazione edile ed architettonica. E agli avvocati, prevalentemente liberi professionisti, che però non guadagnano ancora molto, anche in ragione del fatto che la loro carriera inizia con il praticantato. «Per chi è ben preparato e disposto a sacrificarsi durante i primi anni il lavoro però c'è», commenta Rodolfo Murra consigliere segretario dell'Ordine degli Avvocati di Roma. Come a dire, abbiano pazienza che poi, se possono permettersi di aspettare e sono bravi, guadagneranno soldi a palate.
Nelle schede di queste pagine abbiamo mostrato i dettagli dei destini occupazionali dei diversi gruppi di discipline, dalle professioni mediche superstar alle nuove aperture dei mestieri che ineriscono la conservazione ambientale e i monitoraggi ecologici del territorio. A guidare il mercato del lavoro, in questi anni di chiusura, però non sembrano più essere le professioni tradizionali: ingegneri, manager, avvocati. Sembra delinearsi uno scenario non del tutto inedito in periodi di congiuntura: la classe dirigente chiusa in se stessa che continua a perpetuarsi in circuiti chiusi, d'élite; e magari cerca i centri di eccellenza molto spesso all'estero. E la massa dei laureati che spinge per inserirsi nelle nuove professioni che sarebbero il vero nocciolo della modernizzazione del Paese. Per questo agli esperti sembra così importante aumentare il numero dei laureati e monitorare l'efficienza dei piccoli atenei, quelli che devono legarsi al tessuto produttivo, da un lato, e dove sbarcano (vedi la tabella di pag 76) i giovani che vengono da famiglie di basso livello culturale. «Noi guardiamo lì, perché in quei casi la qualità degli atenei è dirimente,» spiega Cammelli: «Paradossalmente i centri di eccellenza, dove vanno i figli dei ricchi e dove ci sono i professori più blasonati, potremmo anche non osservarli. È ovvio che i laureati di quegli atenei trovano lavoro, ci mancherebbe altro».
Ciò che autorizza gli esperti a essere ottimisti, in definitiva, è l'aprirsi di nuovi sbocchi professionali legati alle specificità dei territori, dall'agricoltura all'alimentazione, alle innovazioni nelle piccole e medie imprese. È lì che troverà lavoro la massa dei laureati di domani. Posto che gli atenei lo capiscano, che stringano legami forti con le imprese di qualunque tipo che hanno intorno, che comincino a lavorare ben prima che la matricola sbarchi alla prima ora di lezione partecipando attivamente all'orientamento dei giovani che escono dalla scuola secondaria.
Quello che raccontano oggi le rilevazioni dei consorzi universitari è un'Italia che cerca di crescere omogeneamente, forse perdendosi per strada molte delle eccellenze delle nostre università dei tempi che furono. Ma ormai appare chiaro che i centri di eccellenza sono pochi e tali resteranno, e c'è solo da sperare che non servano solo le élite ma siano e rimangano accessibili ai giovani di talento, e che abbiano denari pubblici a sufficienza per fare ricerca e garantire un'istruzione di alto profilo. Resta però un numero molto alto di piccoli centri che non hanno la massa critica per diventare centri di eccellenza, ma forse non è nemmeno necessario che lo siano. È loro il compito di elevare il livello del Paese, di fornire professionisti della sanità, dell'istruzione, della conservazione del territorio, e di tutto quello che serve a un paese per entrare e stare nella modernità.