Ho conosciuto Fabio Polenghi anni fa, quando lavoravo a Milano nell'agenzia fotografica Grazia Neri. A unirci, la passione per il Brasile: io ero coinvolta in un progetto in Amazzonia, lui viveva a Rio De Janeiro e spesso ci scambiavamo idee, storie, consigli e impressioni.
Fabio era un fotografo freelance, che non si era mai buttato a seguire le cosiddette "hard news", si concentrava piuttosto nelle "storie", inseguendo il lato più positivo della fotografia, del fotogiornalismo.
Fabio era un uomo schivo, molto gentile. Era un professionista indipendente, spinto in questo lavoro dall'entusiasmo e da una grande fiducia in se stesso. Non aveva la fretta, né la smania di trovare "storie" d'assalto, preferiva descrivere gli aspetti culturali dei luoghi che visitava e raccontava.
Sapevo che era a Bangkok, come fanno i fotografi mi aveva scritto per informarmi sui suoi spostamenti. "Whereabout" li chiamiamo. Dove e a fare cosa, non lo diceva con precisione. Del resto, in 29 anni di lavoro aveva girato una settantina di diversi Paesi.
Da tre mesi aveva scelto l'Asia, tra l'India e l'Indocina. Quando è scoppiata la rivolta, ho pensato a cosa ci facesse Fabio, lì in mezzo al caos di Bangkok, ma non mi sono stupita. Un fotogiornalista anche se è andato in un posto per raccontare altre storie, magari più "leggere", se si trova nel mezzo di una situazione giornalisticamente importante non si tira indietro e anzi, non può, né vuole fare a meno di testimoniarla.
Politica
19 maggio, 2010LEGGI Ucciso a Bangkok il fotoreporter italiano Polenghi
Polenghi non era un fotografo d'assalto
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