
"Vedrete, il caso Scajola è prodromico", sentenzia l'ex ministro andreottiano Paolo Cirino Pomicino, esperto di manovre. È solo l'inizio, il meglio, o il peggio, deve ancora arrivare.
"Quello di Anemone era un sistema. E ora c'è il terrore", spiega un notabile azzurro. Nel Transatlantico alla deriva torna la paura dello tsunami. L'incubo che le dimissioni di Scajola siano il primo passo verso l'abisso. Circolano i nomi nel mirino dell'inchiesta della procura di Perugia, pescati tra i 240 conti correnti di Zampolini. Altri ministri in carica, almeno due e di primissimo piano, coinvolti nel metodo della compravendita delle case utilizzato da Scajola per acquistare l'appartamento con vista Colosseo. E numerosi parlamentari, deputati e senatori, di maggioranza e di opposizione.
Più laceranti delle inchieste ci sono i sospetti nel Pdl dove nessuno si fida più del vicino di banco. Stenta a trovare la bussola perfino Gianni Letta, finora il punto di equilibrio tra Palazzo Chigi e gli altri poteri, ora indebolito e sempre più preoccupato della sua parabola personale, timoroso di essere trascinato nel vortice come il bersaglio grosso su cui puntare. Tutti contro tutti, in un crescendo di accuse e controaccuse terrificanti. Scajola convinto che i manovratori, quelli che l'hanno costretto ad abbandonare il governo siano da cercare tra i notabili del Pdl: il ministro dell'Economia Giulio Tremonti e i coordinatori del partito Ignazio La Russa e Denis Verdini, accusato a Firenze di concorso in corruzione e nonostante questo rimasto al suo posto, mentre l'ormai ex ministro che ha dovuto mollare non risulta neppure indagato. "Ma nel caso di Verdini non sono stati trovati assegni", scherza il deputato Pdl Mario Pepe. I leghisti in attesa, che fanno sapere di essere interessati a rientrare nel rimpasto di governo se ci sarà. E i berlusconiani contro i finiani, senza più pudore. C'è Fini dietro i dossier, denunciano i falchi di palazzo Grazioli.
È il presidente della Camera ad incassare a suo vantaggio il discredito politico che si abbatte sul governo: "Lui e Bocchino sono troppo spavaldi. Italo ha tirato in ballo la Endemol e i legami con Berlusconi: o non sa cosa dice o si sente super-protetto dall'alto". Da chi, dai servizi? Non importa se sia vero o falso, il rumore circola indisturbato da un capannello all'altro mentre il centrodestra è costretto all'ennesimo voto di fiducia alla Camera. "Inutile nasconderlo: siamo preoccupati. Anzi, siamo incazzati neri", riassume il vice-capogruppo dei deputati Pdl Osvaldo Napoli.
E il caos di questi giorni sembra anticipare la fine traumatica della legislatura. Con il ricordo che va ad altre epoche storiche: gli anni della prima Repubblica in cui la guerra di successione nella Dc si combatteva a colpi di ragazze morte in spiaggia, di manine e di manone che facevano ritrovare memoriali scomparsi da anni e poi, con altrettanta disinvoltura, li facevano sparire. O il 1993, l'anno di Tangentopoli, con i ministri che venivano giù come fuscelli, travolti da un semplice avviso di garanzia. "Io c'ero, per questo ho considerato le dimissioni di Scajola una concessione alla piazza, una fesseria. Si crea un precedente pericoloso", ricorda il ministro Gianfranco Rotondi, ex democristiano. Ed è quello che pensano in molti: via Scajola cade la pietra angolare su cui si è retta la maggioranza in questi mesi. La presunzione di invincibilità, in assenza di una opposizione in grado di contendere al Pdl la guida del Paese. Spesso tramutata nella rivendicazione dell'impunità assoluta.
Con l'uscita di scena del ministro dello Sviluppo economico si è infranto il dogma numero uno del berlusconismo: mai dimettersi per un'inchiesta della magistratura. Resistere al proprio posto, negare l'evidenza, attaccare il circuito mediatico-giudiziario. Prendersela con le toghe politicizzate e con le campagne d'odio dei giornali, aspettando che passi la bufera. È la formula magica che ha salvato il sottosegretario all'Economia Nicola Cosentino, accusato di associazione camorristica da una decina di pentiti: niente autorizzazione all'arresto, come richiesto alla Camera dai magistrati con tanto di conferma della Cassazione, e niente dimissioni dal governo e neppure dal coordinamento campano del Pdl. Imbullonato sulle sue poltrone con la benedizione del premier. In buona compagnia: non si è dimesso, ed è stato anzi quasi proposto alla beatificazione da Berlusconi, il sottosegretario alla Protezione civile Guido Bertolaso, indagato per corruzione nell'inchiesta sugli appalti del G8 della Maddalena. È rimasto senza tanti problemi alla guida del Pdl il toscano Verdini, grande rivale di Scajola nel partito, anche lui sotto inchiesta per gli appalti dei grandi eventi. Nel governo c'è un ministro rinviato a giudizio, Raffaele Fitto. E naturalmente non ha mai pensato di mollare il Gran Impunito: Berlusconi è sempre lì a palazzo Chigi, nonostante i processi e gli scandali.
Per questo, fino all'ultimo, il premier ha provato a salvare anche Scajola, nonostante la freddezza tra i due. Prima la solidarietà del Consiglio dei ministri all'unanimità, anche se accompagnata dal silenzio di alcuni colleghi di peso, Tremonti in testa. Poi l'offerta di aiuto che il ras di Imperia non poteva rifiutare: "Claudio, ti mando Niccolò Ghedini, preparate insieme la tua difesa". Ma il ministro ha commesso passi falsi a dozzine. Interviste reticenti. Superficialità e improvvisazione mentre il caso stava montando. Fino alla resa, con il 'Giornale' di Vittorio Feltri in prima fila a chiedere la testa del ministro. Ancora una volta in sintonia con il Cavaliere, a questo punto furioso con il suo fedelissimo: "Ho messo la faccia per darti una mano e tu ti sei fatto sbranare".
Il crollo fa felici i molti rivali interni di Scajola. Il ministro dell'Economia Tremonti, per esempio, sospettato dagli scajoliani di essere stato informato in anticipo dell'inchiesta della Guardia di finanza e di non aver avvertito per tempo il collega. O l'ex An Ignazio La Russa, avversario nel governo e nel partito. Una battaglia di posizione cominciata con la nomina di Roberto Massi a direttore degli uffici generali del ministero di Scajola. Colonnello dei carabinieri, Massi è una figura chiave dell'Arma: ex comandante dei Ros di Roma, da cui sono passate tutte le indagini più delicate degli ultimi anni, da lady Asl a Calciopoli, trasferito poi al quartier generale di viale Romania come capo dell'ufficio personale, la casella da cui si controllano incarichi e spostamenti. Infine approdato nella squadra di Scajola che è uomo all'antica, cresciuto alla scuola del ministro ligure Paolo Emilio Taviani, uno dei fondatori di Gladio, da cui ha imparato che per mantenere il potere bisogna assicurarsi gli apparati di sicurezza. Un attivismo che non è sfuggito a La Russa, preoccupato anche dalle scorribande di Scajola nel Pdl, con la voglia matta di tornare a guidarlo.
Ora che il ministro di Imperia è venuto giù, il trio Bondi-Verdini-La Russa può tirare un sospiro di sollievo. Ma le conseguenze di uno Scajola con le mani libere e assetato di vendetta potrebbero essere devastanti per il Pdl. L'ex ministro controlla un nutrito drappello di parlamentari pronti a sostenerlo: almeno 40 tra Camera e Senato, il gruppo dei Consolini, come si chiama il ristorante romano alle pendici dell'Aventino dove si riuniscono. In gran parte sono arrivati alla terza legislatura, la ricandidatura alle prossime elezioni è un miraggio, non hanno nulla da perdere. Con il loro capocorrente desideroso di prendersi la rivincita con i nemici interni, potrebbero diventare un'altra spina nel fianco per il Cavaliere quando arriveranno alle Camere i provvedimenti più caldi. Specie se gli scajoliani dovessero andarsi a sommare al gruppo dei fedelissimi di Fini. Sempre più in rotta di collisione con il clan di Arcore, dopo la sfuriata pubblica alla direzione del Pdl, sempre più tentati dalle mani libere sulla giustizia e non solo.
Nelle stesse ore delle dimissioni di Scajola, per esempio, il presidente della Camera spedisce una missiva alla commissione Affari costituzionali. Oggetto: la legge sulla cittadinanza degli stranieri e sul diritto di voto per gli immigrati firmata dal finiano Fabio Granata e da esponenti del Pd. Il progetto è bloccato da mesi in commissione, Fini chiede di accelerare e di mettere in calendario una proposta che spacca la maggioranza. "Prima c'è da votare il federalismo", rispondono a brutto muso i rappresentanti della Lega. "Che bisogno c'è di riaprire questo fronte in un momento così delicato?", si chiedono nel Pdl. Lo stesso spettacolo va in onda al Senato: qui gli uomini di Fini chiedono di approvare rapidamente il ddl sulla corruzione. Anche a costo di ritardare la legge sulle intercettazioni che sta a cuore a Berlusconi e che è bloccata da un anno.
In Sicilia, poi, nella regione simbolo del centrodestra, il Pdl di Fini si è già separato dal Pdl di Berlusconi: i finiani appoggiano la giunta di Raffaele Lombardo con un bel pezzo di Pd, la fazione del presidente del Senato Renato Schifani e del ministro della Giustizia Angelino Alfano passa all'opposizione. Pdl uno e Pdl due, un modello da esportare. Nel Lazio appena espugnato da Renata Polverini è già andata in crisi la giunta provinciale di Viterbo eletta un mese fa, per contrasti interni.
Guerra per bande. E in una stagione politica così infuocata i terremoti politico-giudiziari sono la ciliegina sulla torta.
E dire che l'agenda berlusconiana doveva essere tutt'altra: quella indicata dal Cavaliere in tv il 25 aprile, con la riforma della Costituzione. E poi il lodo Alfano da inserire nella Carta per blindare premier e ministri da eventuali processi, ma ora chi avrà il coraggio di approvarlo? In questa situazione il Parlamento è alla paralisi. Il Pdl così graniticamente unito contro Fini nelle aule di Montecitorio e di palazzo Madama sbanda paurosamente. La Lega, al solito beneficiaria del vento anti-politico che torna a soffiare a destra, si è messa in proprio e si prepara a fare il pieno di consensi quando si tornerà a votare. E Tremonti si atteggia a statista di caratura internazionale, tra un vertice europeo sulla Grecia e un dibattito con Guido Rossi su capitalismo e democrazia, lontano dalle miserie romane: studia da premier, prepara la successione, offrendosi come l'unico punto di riferimento sicuro all'interno e all'esterno. Mentre l'inner circle berlusconiano si sente 'sotto assedio', come titola perfino il 'Giornale' di Feltri: ieri Scajola, di cui pure il Cavaliere non si è mai fidato troppo, oggi Verdini, cui ha consegnato le chiavi del partito, domani potrebbe toccare a Letta, il motore di palazzo Chigi. "Faranno di tutto per far cadere il governo", ripete Berlusconi con i suoi. Ma neppure lui, ormai, sa se gli attacchi arrivino da fuori o da dentro. E se non gli convenga giocare d'anticipo, rovesciare il tavolo e puntare tutto sulle elezioni anticipate. Un azzardo sulla pelle del Paese. L'ultimo bluff al tavolo del Casino delle Libertà.