Avanzano come fantasmi nei corridoi di Montecitorio ormai deserti, come i superstiti di un naufragio, e come naufraghi sono incredibilmente allegri. Alle dieci di sera escono dallo studio di Fini alla Camera Italo Bocchino e Adolfo Urso, il giovane sottosegretario Antonio Buonfiglio e l'ex radicale Benedetto Della Vedova. E poi Flavia Perina, la pasionaria che dirige il "Secolo", è come in preda a una isterica euforia. «Mi sono dimenticato i telefoni, torno su a prenderli, dovessero levarci pure quelli», scherza il bolognese Enzo Raisi.
Il gigante Fabio Granata, il kamikaze della perestroika finiana, bacia e abbraccia tutti, solleva da terra i colleghi che gli capitano a tiro. «Finalmente. Per noi è una liberazione. Sì, una liberazione!». E per istante, potenza delle suggestioni, ti sembrano usciti da una pellicola ingiallita, i partigiani che sfilano con le giacche strappate ma ancora in piedi tra le macerie di Milano il 25 aprile. Proprio loro che sono cresciuti quasi tutti in un partito che nel suo dna aveva l'eredità del dittatore fucilato a Dongo.
Gianfranco Fini lascerà il palazzo un'ora dopo. E per la prima volta dimostra tutti i suoi 58 anni: stanco, ingobbito, con la voce che si spezza in gola, i fili bianchi tra i capelli in apparenza aumentati, stremato dalla tensione. In quel momento Silvio Berlusconi si trova in una magnifica villa in cima al Gianicolo, alla festa del cinquantesimo compleanno del ministro Gianfranco Rotondi. Torce che illuminano il vialetto e i volti degli invitati, falangi di camerieri con portate spaziali, ecco Denis Verdini con a un braccio la moglie, la nobildonna Fossombroni, P3 con candeline.
Scorre un video con i volti di Falcone e Borsellino «assassinati dalla mafia», informa utilmente una didascalia, mentre si formano il tavolo dei napoletani con il governatore Stefano Caldoro, quello dei ciellini con Formigoni e Lupi, quello dei giornalisti con mezza redazione politica del Tg1, Paolo Bonaiuti, Alessandro Sallusti e il direttorissimo Minzolini. Appena un'ora prima ha sfornato l'ennesimo editoriale per dire che tutto va bene e dunque perché allarmarsi se chiarezza viene fatta, già, perché allarmarsi, lui infatti se la sghignazza e si gode il meritato tartufo gomito a gomito con il portavoce di Palazzo Chigi.
Berlusconi è al tavolo centrale, accanto al festeggiato, di fronte al presidente del Senato Renato Schifani. Ride e brinda con il sindaco di Roma Gianni Alemanno che di Fini fu amico e camerata. Allo stesso tavolo, cotonata e incontenibile, c'è la vedova Almirante donna Assunta. Fu lei, raccontano i biografi, a volere quel giovanotto alto e ben educato alla guida dei giovani del Msi e poi come successore del marito alla guida del partito. E ora eccola lì, nella sera della fine di quella storia, si scambia un grissino con Berlusconi. Brindano alla decapitazione di Fini.
È il crepuscolo della giornata più lunga, e ora che è terminata, il Pdl non c'è più, e neppure il centrodestra così come lo abbiamo conosciuto, e la Seconda Repubblica.
La Seconda Repubblica nacque la mattina del 23 novembre di quasi 17 anni fa, in una sede inconsueta, davanti all'ingresso di un ipermercato di Casalecchio del Reno vicino Bologna, quando i giornalisti chiesero all'imprenditore Silvio Berlusconi del ballotaggio per il Comune di Roma tra l'allora capofila dei progressisti Francesco Rutelli e l'allora segretario missino Fini e lui rispose d'un soffio: «Se fossi a Roma, voterei Fini. Non avrei un secondo di esitazione perché è l'esponente che raggruppa quell'area moderata che si è unita e può garantire un futuro al Paese».
Il bipolarismo italiano partì con quella risposta. Ed è un'incredibile beffa che nel giorno in cui il sodalizio tra il Cavaliere e Fini si spezza definitivamente, l'avversario dell'ex leader di An nella corsa a sindaco di Roma Rutelli voti al Senato per la prima volta insieme al governo la riforma universitaria.
Non è solo una rottura umana, quella si era già consumata almeno tre anni fa, quando a proposito del predellino del Cavaliere Fini parlò di «comiche finali» e le reti Mediaset rimandarono in onda un vecchio filmato della sua compagna Elisabetta Tulliani con il presidente del Perugia Gaucci. E forse anche prima: viene in mente la scena di Berlusconi che nel 2004 strapazza nell'aula del Parlamento europeo il capogruppo socialista Martin Schultz («kapò, turista della democrazia…») e dietro di lui Fini con le mani nei capelli, rosso di vergogna.
Ma in quegli anni il leader di An non era mai riuscito a spiegare cosa lo dividesse da Berlusconi, se non la rivalità personale, l'ansia di diventare il numero uno, l'angoscia di invecchiare nell'eterna attesa della successione, di trasformarsi nel principe Carlo del centrodestra. Predestinato al trono e condannato a non regnare mai.
Solo negli ultimi ventiquattro mesi, da quando è presidente della Camera, Fini è riuscito a segnare una profonda differenza politica con il resto del Pdl. Un'altra destra non più fondata sul Sire di Arcore. La diversità è lì, messa nera su bianco nel dispositivo approvato dal Gran Consiglio berlusconiano che ha deciso l'espulsione dell'ex co-fondatore dal partito. Un documento che resterà nella memoria perché mai era successo in un partito democratico che uno dei leader fosse espulso con una brutalità degna di ben altri regimi.
Fini ha presentato una legge sul diritto di voto degli immigrati che non è prevista dal programma di governo, accusano i Suslov di palazzo Grazioli. Peggio, «sulla legge elettorale vi è stata una apertura inaspettata a tesi che contrastano con le costanti posizioni tenute da sempre dal centro-destra» (quali? Non si sa). E soprattutto, Fini ha assecondato «i tentativi di uso politico della giustizia, ha posto in contraddizione la legalità e il garantismo, si è mostrato esitante nel respingere i teoremi che vorrebbero fondare la storia degli ultimi sedici anni su un "patto criminale" con la mafia».
La legalità, la questione morale, è lì che si è rotto tutto. Basta l'esitazione su questi temi, basta il dubbio che Berlusconi e i suoi amici non siano perfettissimi e immacolati, per essere buttati fuori dal Pdl. Il partito delle libertà, ma non quella di esitare sulla verginità di San Silvio Martire delle Procure.
Chissà se i tanti osservatori liberali riconosceranno in queste righe l'eco di tragiche dottrine, il sogno di un mondo monocolore e monopensiero che qualche orrore nella storia dell'umanità l'ha provocato. Ma qui siamo in Italia, e la fatwa del Cavaliere con cui Berlusconi pensa di aver cancellato il problema Fini per passare al prossimo conflitto di interessi, la nomina di Paolo Romani a ministro dello Sviluppo economico, già nelle prossime ore potrebbe rivelarsi un errore di calcolo, un clamoroso autogol.
Vedremo questa mattina su quante divisioni, su quanti deputati e senatori, potrà contare Fini. «Ora li facciamo partire con loro nuovo gruppo, sono trenta ma entro un mese ne portiamo via la metà», prevede Giorgio Stracquadanio, animatore del sito il Predellino che oggi uscirà con la bandierina festante, in edizione speciale. C'è poco da festeggiare: se davvero i finiani sono più di trenta alla Camera già da oggi hanno in mano la golden share per la sopravvivenza del governo e potrebbero aumentare nelle prossime ore con l'arrivo di nomi prestigiosi dalle file dell'ex Forza Italia. Per esempio, l'ex ministro degli Interni Giuseppe Pisanu. E insistere a spostare sul piano istituzionale lo scontro politico, reclamando le dimissioni di Fini dalla Camera, non farà altro che accelerare l'esplosione del sistema politico.
Per ora Fini esiste nel Palazzo, nel paese ancora no. Per questo ha bisogno di tempo per organizzare le truppe. Per lo stesso motivo l'onda d'urto potrebbe arrivare a scuotere l'unico edificio stabile del centrodestra, la Lega. Il partito di Bossi finora è stato il più potente elemento di stabilizzazione del sistema, tiene in vita Berlusconi con il respiratore artificiale. Quanto resisterà in questa condizione innaturale prima di rimettersi in movimento e staccare la spina? È una delle incognite di queste ore. In attesa di capire se l'azzardo di Fini si trasformerà nel suicidio politico di un leader ambizioso. O se il suo 25 aprile si trasformerà in una liberazione dal berlusconismo, non solo personale.