Camera ardente all'università cattolica di Roma, ma esequie private in Sardegna per l'ex Presidente della Repubblica. L'analisi di una carriera con il 'k' e senza
di Marco Damilano
18 agosto 2010
L'ultimo saluto in forma privata. Funerali in un minuscolo, sconosciuto paesino, Cheremule nel sassarese. Lettere ai vertici della Repubblica. Ha pensato a tutto nei minini dettagli, Francesco Cossiga. E anche nella scomparsa ha deciso di ripercorrere fin nei dettagli gli ultimi giorni dell'uomo più importante della sua vita: Aldo Moro. Il presidente della Dc rapito dalle Brigate rosse che angosciò i capi politici con le sue lettere dalla prigonia, che volle solo la famiglia ai suoi funerali e che fu sepolto nel piccolo cimitero di Torrita Tiberina. Pochi giorni dopo un fotografo riprese un'ombra solitaria che piangeva davanti a quella tomba: era Cossiga.
«Chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato né uomini di partito», scrisse Moro alla famiglia. «Nessuna autorità ai miei funerali», chiede oggi, trentadue anni dopo, Cossiga. Era stato Moro a volerlo fortemente al ministero dell'Interno, a soli 48 anni, nel governo Andreotti che si reggeva sull'astensione determinante del Pci. E a lui aveva indirizzato la prima lettera dal covo delle Br: «Caro Francesco, mentre t'indirizzo un caro saluto, sono indotto dalle difficili circostanze a svolgere dinanzi a te, avendo presenti le tue responsabilità (che io ovviamente rispetto), alcune lucide e realistiche considerazioni…». Niente da fare. L'allievo non era riuscito a salvare il maestro. Di più: il fantasma di quei 55 giorni l'avrebbe tormentato. Un'identificazione assoluta. «La Dc ha buttato alle ortiche Moro, figuriamoci se non butterà alle ortiche me», disse a Paolo Guzzanti in un'intervista per la “Stampa” quando era al Quirinale, nei giorni di massimo scontro con il suo partito. Si sbagliava, era un lapsus, voleva dire Leone, il suo predecessore costretto a dimettersi. Ma niente, a Cossiga quel nome non usciva. Lui, in testa, aveva solo Moro.
È stato il democristiano più raccontato, adulato e odiato, come dimostra l'esultanza in rete per la sua morte di quelli che ai suoi tempi – quelli bui del ‘77, della polizia con la P38 infiltrata nei cortei, di Giorgiana Masi- si sarebbero chiamati extraparlamentari. I blog oggi come i muri degli anni Settanta, su cui il suo nome veniva scritto con il K e con la sigla delle SS. Li aveva fatti fotografare, raccolti in un album e di recente in una mostra. Sempre al potere nei momenti più oscuri: ministro dell'Interno durante il caso Moro, presidente del Consiglio nell'estate del 1980, quando nel giro di un mese c'è la strage di Ustica e subito dopo la strage di Bologna. In qualsiasi altro paese dopo una simile trafila un uomo di governo avrebbe avuto la carriera politica stroncata per sempre. Lui no, viene promosso al colle più alto, va al Quirinale.
Un'ascesa enigmatica, come enigmatico sarà il suo settennato. Per i primi cinque anni si chiude nel silenzio, i capelli precocemente bianchi, la chiusura in uno spazio notarile. Una presidenza in punta di piedi, per non farsi notare. Poi, quasi all'improvviso, nel ‘90 annuncia che ha «qualche sassolino» da togliersi dalle scarpe. Non smetterà più di parlare. Si trasforma nel Picconatore, anticipa la fine della lunga stagione dei partiti della prima Repubblica. Lepre marzolina, fool shakesperiano, lo chiamano. «Faccio il matto ma non sono matto, dico le cose come stanno», replica. E quando la sua voce non basta, sembra moltiplicarsi, con gli pseudononimi alla Pessoa, da Franco Mauri a Mauro Franchi, che spesso intervistano indovinate chi, proprio lui, Cossiga.
Cossiga è doppio, triplo, quadruplo. L'uomo in grigio della Repubblica ha in realtà mille colori. Più di Andreotti, Fanfani, Moro (e Craxi e Berlinguer…), leader altrettanto forti e non meno misteriosi, ma con minori sfaccettature. «Uno sciamano», lo ha definito anni fa Filippo Ceccarelli. A pensarci ora, è lui la personalità che meglio di ogni altro ha incarnato la prima Repubblica, nel suo essere tutto e il contrario di tutto, il cinismo e la generosità, lo Stato in mutande davanti al terrorismo e alla mafia e la conquista della democrazia. Cossiga è governo e opposizione, luce e ombra, malizia e sincerità. Depressione invincibile e vitalità esagerata, eccessiva, spudorata. Tecnologico, con un pannello dei comandi nello studio, e arcaico, con la rivendicazione orgogliosa della sua sardità. Anarchico e cristiano, cattolico liberale con il culto dello Stato, della separazione tra Dio e Cesare. È un raffinato e crudele sacerdote del potere, con i suoi riti oscuri e violenti, e insieme un combattente isolato, disperato e a suo modo coraggioso.
Basta sfogliare i messaggi che arrivano in queste ore e qualche sprazzo di biografia. Stupendo il comunicato dell'ex mezzobusto Francesco Pionati, oggi deputato disperso nella galassia centrista che Cossiga, ai tempi del Quirinale, definì «un ragazzino il quale è stato assunto perché notoriamente è il figlio dell' ex sindaco di Avellino, e lo si manda a fare le zummate sulla gente che applaude le stupidaggini che dice De Mita», e Dio lo abbia in gloria almeno per questo. Il ministro delle P38 e del caso Moro è oggi pianto da Francesca Mambro e da Valerio Morucci. L'uomo che non era riuscito a trovare Moro accettò molti anni dopo di partecipare a un reality tv con l'ex br Adriana Faranda, tutti e due chiusi in una stanza senza uscita, con lei che confessava a lui di sognare lo statista ogni notte e lui che la consolava: «Non si preoccupi, non l'avete ucciso voi, l'ho ucciso io». Il cattolico «amico personale» di papa Ratzinger, raffinato studioso di Newnam e Rosmini, «il più intelligente della sua generazione», lo chiamava papa Paolo VI, è al tempo stesso onorato dal Gran Oriente d'Italia con i labari brunati e il capo della massoneria lo saluta come «maestro di vita», chissà se si tratta di una rivelazione. L'inventore di Gladio, nata in funzione anticomunista, è l'uomo che ha fondato un partito per portare il primo post-comunista a palazzo Chigi, Massimo D'Alema, sia pure soltanto per gestire la guerra in Kosovo a fianco degli americani. Americani delusi, però, quando a Roma i palestinesi dell'Olp, ricercati come terroristi internazionali, potevano circolare indisturbati e armati grazie alla sua protezione. «I carabinieri facevano finta di cercare Arafat e lui dormiva tranquillamente negli appartamenti del presidente del Senato, cioè del sottoscritto», rideva Cossiga, ancora divertito della beffa.
Fedele alla Repubblica, alle sue miserie e alle sue grandezze, perché è esistito un pensare in grande degli uomini del primo cinquantennio, tra intrighi internazionali, spie israeliane, logge massoniche, Cia e Vaticano, nel bel mezzo della guerra fredda e dei conflitti mediorientali, davvero lontani dai complottucci di oggi, appartamenti a Montecarlo, cucine Scavolini e banchette fiorentine da sette sportelli e altri intrallazzi da provincia e da cortile. Sembrava saperlo anche Cossiga, che pure non ha mai disdegnato la nobiltà del gossip, era uno dei segreti ispiratori di Dagospia che oggi lo saluta commosso con la sua foto in divisa da carabiniere agitata come un santino. Si era ritirato nel suo appartamento nel quartiere Prati dove riceveva i giornalisti e gli amici in veste da camera o in pigiama. E negli ultimi mesi aveva smesso di parlare, lui che alle cinque del mattino svegliava gli interlocutori per commentare i giornali ed era l'incubo dei direttori con le sue lunghe lettere da pubblicare obbligatoriamente, piene di allusioni e cattiverie terribili, dense di verità sugli intoccabili che solo a lui era permesso dire. I suoi segreti erano moneta fuoricorso. I suoi misteri, i servizi, le stay behind, erano ormai roba di un'altra epoca, che nessuno ricorda più. Aveva previsto che Obama non sarebbe stato eletto ed ecco invece il presidente nero. Al posto del suo anticomunismo tragico è rimasto l'anticomunista di comodo e di Tor Crescenza. Il suo mondo era già finito. E lui si era chiuso nel silenzio, preparandosi al quinto passo, l'addio. In modo strano per lui, in punta di piedi. Con il K e senza.