Nel 2002 l'ex presidente della Repubblica, scomparso il 17 agosto, in un'intervista a L'espresso dal titolo 'Silvio, o vendi o vai' spiegava perché il Cavaliere era un pericolo per la democrazia. E rivendicava l'autonomia della politica dicendo: "Berlusconi è un amico, ma non sono sul suo libro paga"
19 agosto 2010
di Massimo Mucchetti
Francesco Cossiga si accinge a presentare un disegno di legge per risolvere i conflitti d'interessi nel Parlamento, nel Governo e al Quirinale. "L'Espresso" gli ha chiesto di illustrarlo in anteprima nell'intervista che segue. La materia è scottante perché coinvolge personalmente Silvio Berlusconi, capo del governo e primo azionista di Mediaset.
Alla vigilia di Natale, i presidenti della Camera e del Senato avevano già auspicato l'approvazione di una legge sul conflitto d'interessi, o quantomeno l'avvio del dibattito parlamentare, prima di procedere alla nomina del nuovo consiglio di amministrazione della Rai. L'ex presidente della Repubblica ha le carte in regola per intervenire: nella passata legislatura, furono lui e Stefano Passigli, ulivista senza padroni, a bloccare al Senato il disegno di legge già approvato all'unanimità dalla Camera e ora giudicato insufficiente dal centro-sinistra.
Presidente, ora c'è un testo del governo, firmato dal ministro della Funzione pubblica, Franco Frattini. Come lo giudica? «Deve sapere che Frattini, maestro di sci e rocciatore bravissimo, è anche un grande giurista. È consigliere di Stato. E aveva vinto pure i concorsi per entrare nella magistratura ordinaria, nell'avvocatura dello Stato e nella Corte dei Conti. Non sapevo che fosse diventato un grande umorista. Sì, perché il suo disegno di legge deve essere uno scherzo, non potendolo io ritenere frutto di ignoranza giuridica. Da un punto di vista politico, si tratta di una sonora presa per i fondelli, che non comprendo quanto giovi alla delicata posizione di Silvio Berlusconi».
Forza Italia ammette la discussione, purché non si stravolga il progetto. «Ma come si fa a non stravolgere un provvedimento che è semplicemente anticostituzionale? Come si fa a creare un'autorità che controlla gli atti del governo e riferisce al Parlamento gli eventuali conflitti d'interessi? Meglio se si accantonerà questo disegno di legge e si affronterà su basi nuove il problema».
I nodi irrisolti sono l'uso del potere politico al servizio del potere economico e l'uso di questo per conservare quello. «Sarò molto franco. L'uso del potere politico è illegittimo se persegue interessi economici personali: sarebbe abuso di potere, e su questo non ci piove. Non è illegittimo, invece, se si tratta di interessi di classe. La democrazia moderna non è solo rappresentanza di valori, ma anche di interessi economici. Tutti i governi sono più o meno di classe. Anche quello di Berlusconi, che si offende quando glielo dico. Mi pare che fatichi a capire come in una democrazia competitiva l'interesse generale venga perseguito non da un solo governo, fosse pure quello della Casa delle Libertà, ma dalla combinazione delle politiche degli esecutivi che si alternano». È dunque decisivo proteggere la possibilità dell'alternanza. «Già. Come ci si deve regolare con i membri del governo e del Parlamento che hanno posizioni di preminenza economica? Per i parlamentari semplici basterebbe - ed è la prima riforma che propongo - introdurre una norma etica ispirata all'esperienza britannica. Istituire, cioè, presso ciascuna Camera un pubblico registro degli interessi economici dei parlamentari e far obbligo a coloro che, per esempio, possiedano azioni Fiat o Montedison, di dichiararlo in premessa qualora volessero intervenire in aula o esprimere un voto su quella sporca vicenda che è il trasferimento di Montedison all'Edf. Di più: l'obbligo dell'iscrizione al registro e della pubblica dichiarazione dovrebbe scattare già all'inizio della campagna elettorale». Ma i peones contano poco. «E infatti per i presidenti dei gruppi parlamentari e delle commissioni, o per i relatori dei disegni di legge, penso a una disciplina più stretta. Uguale a quella dei ministri e dei sottosegretari. Ogni volta che il governo delibera in materie nelle quali hanno interessi personali, gli interessati lo dichiarino. La legge non li può costringere ad astenersi, ma l'etica parlamentare sì. Se invece si tratta di interessi di classe, si diano da fare: è un loro dovere curare gli interessi collettivi dei quali sono espressione».
E Agnelli o Berlusconi si astengono sempre? «Questo io non lo so. D'altra parte, l'unica soluzione al problema del rapporto tra politica e denaro, certo la più radicale anche se la più utopica, è la democrazia leninista dei soviet. Ma generò Stalin e i gulag. Siamo onesti: tutti quei veltroniani che in Italia invocano l'America mi pare dimentichino che quello americano è il governo dei ricchi, addirittura delle dinastie, dai Kennedy ai Bush».
Dunque, la ricchezza di per sé non può esser causa di ineleggibilità o di incompatibilità. «L'unico vincolo che si può introdurre alla detenzione della ricchezza per un membro del governo è il blind trust. Purché si tratti di soldi, titoli negoziabili, immobili. Non di aziende o partecipazioni rilevanti. D'altra parte, al blind trust una volta ricorsi anch'io. Eletto presidente della Repubblica, mi consultai con il ministro del Tesoro, Guido Carli, sulla più opportuna allocazione delle mie sostanze liquide. Un miliardo di allora, più o meno. Restano le lettere, credo. La somma, frutto della vendita delle terre di famiglia resa poco conveniente dalla riforma agraria che il sottoscritto aveva votato, fu affidata a un istituto di diritto pubblico, quasi interamente di proprietà del Tesoro. Alla fine del settennato, mi ritrovai con il 30 per cento in meno».
Oggi direbbero: eccesso di zelo. «E infatti il problema politico vero riguarda i proprietari di strumenti potenti che concorrono a formare l'opinione pubblica. Come diceva il grande costituzionalista inglese Dicey, la democrazia non è concepibile senza una pubblica opinione libera e informata».
Vede pericoli al proposito? «Da cattolico liberale, che fa tesoro della lezione di Luigi Einaudi, non mi pongo l'obiettivo astratto dell'informazione di per sé obiettiva, ma quello dell'informazione globalmente obiettiva, perché plurima e in concorrenza. La libertà e la completezza dell'informazione nascono dal confronto. In Italia c'è il problema di un imprenditore ricchissimo che per sua scelta è diventato uomo politico, ha fondato un partito, è stato già capo del governo, poi ingiustamente cacciato all'opposizione e ora in forza di libere elezioni è diventato ancora capo dell'esecutivo: quest'uomo è proprietario della televisione, di Mediaset e presto o tardi, non tanto per poteri giuridici che non gli competeranno quanto per influenza politica e timore degli operatori, rischia di diventare padrone anche della Rai. E non basta! Tramite le grandi concessionarie di pubblicità Publitalia, che è sua, e Sipra, che è della Rai, può esercitare un grande potere di pressione e attrazione anche sulla carta stampata per i cui bilanci le inserzioni pubblicitarie sono essenziali».
È un problema grave? «Non grave: gravissimo. Lo dice uno che ha sempre difeso Berlusconi dagli attacchi che venivano dall'estero. E che è pronto a farlo ancora. Ma temo proprio che lui non capisca. Che soffra di un vizio culturale: quello di non capire che lo Stato costituzionale è il delicato punto d'equilibrio tra il principio di legalità e la volontà popolare espressa dai cittadini con il voto. I giudici non possono mettersi sopra il Parlamento costituendo, di fatto, un partito dei giudici, ma in un potere politico irresponsabile un ladro rimarrebbe pur sempre un ladro anche se prendesse milioni di voti e questi voti, in uno Stato di diritto, non possono e non devono essere di ostacolo all'azione penale...».
Come intervenire nel caso italiano? «Anzitutto, privatizziamo la Rai. Un solo canale resti pubblico, il Terzo, e sia finanziato con il canone. Senza pubblicità. Gli altri due canali li vendiamo a chi li paga di più e garantisce un impegno per realizzare un regime di vera concorrenza e non per consolidare il triste duopolio attuale che ci regala la peggiore televisione d'Europa. Sull'intero sistema televisivo e su Internet, Gprs e domani sull'Umts dovrebbe poi vigilare una nuova autorità al posto della Commissione interparlamentare di vigilanza sulla Rai, che fu istituita quando esisteva solo la tv pubblica».
Oggi Mediaset dispone per gli spot di un tempo quattro volte superiore alla Rai. «Naturalmente, i canali ex Rai dovrebbero avere le stesse possibilità di raccolta pubblicitaria dei concorrenti».
Sarebbe una batosta. «E per chi?».
Per il concorrente: per Mediaset. «E chi se ne frega! Io non sono mica a libro paga di Berlusconi! È un mio antico e personale amico, talvolta mi presta l'aereo, ma tutto si ferma qui».
Senta, "L'Espresso" lanciò la stessa proposta un anno fa, con il centro-sinistra al governo. E non se ne fece nulla. Figuriamoci adesso. «Il centro-sinistra veltronian-prodiano è responsabile anche di questo. Ma adesso l'emergenza è ancora più allarmante. Lo so anch'io che la privatizzazione della Rai non è affare di poche settimane. Dunque, in attesa che la si faccia, proporrò che il potere di nomina del Consiglio di amministrazione della Rai passi dai presidenti di Camera e Senato al presidente della Repubblica. Dovrebbe essere un potere di prerogativa, come per la nomina dei senatori a vita o dei giudici della Corte costituzionale, che si esercita con un atto controfirmato dal governo: non dal premier o dal ministro delle Comunicazioni, perché avrebbe sapore politico, ma dal Guardasigilli, quale mero controllo di legittimità».
Adesso Ciampi le va bene? «Stiamo parlando di etica e di istituzioni, non di politica. Il mio giudizio sull'attuale presidente della Repubblica è "basso" sul piano politico, ma di grande apprezzamento su quello etico. L'attribuzione dei poteri di nomina dei vertici Rai ai presidenti dei due rami del Parlamento fu un errore istituzionale del compromesso storico. Che si poteva capire quando uno apparteneva alla maggioranza e l'altro all'opposizione, e quindi le nomine dovevano essere bipartisan. Non più oggi che sono entrambi espressione della maggioranza. Attribuire a Casini e Pera un potere in fin dei conti politico mette a dura prova non la loro indipendenza (sulla quale personalmente crederei) ma la credibilità della loro indipendenza. E questo li indebolirebbe nell'esercizio delle loro ordinarie funzioni» .
Resta la questione Mediaset. «In realtà, dovremmo parlare anche di Mediolanum, ma fermiamoci a Mediaset. Io non credo che il controllo di Mediaset debba causare l'ineleggibilità di Berlusconi. Aggravare la legge in materia sarebbe pericoloso per la democrazia. Più serio mi sembra aggiornare per il futuro la legge sulle incompatibilità e sull'ineleggibilità. La norma in vigore stabilisce l'incompatibilità per i rappresentanti legali delle società che hanno convenzioni con lo Stato come quelle radiotelevisive. Oggi Fedele Confalonieri non potrebbe rimanere in carica, ove fosse officiato presidente del Consiglio, ma il suo azionista Berlusconi sì. È un paradosso che si commenta da sé. Ecco, io estenderei l'incompatibilità (forse aggravandola anche in ineleggibilità...) a coloro che hanno una posizione azionaria di controllo in queste società concessionarie o convenzionate, e pure a coloro che hanno una posizione rilevante se giudicata tale da organi come Consob o Banca d'Italia».
Berlusconi se la caverebbe cedendo le azioni al fratello Paolo. L'ha già fatto con il "Giornale". «Non credo. Non sarebbe serio. S'intende, tuttavia, che la posizione dovrebbe essere considerata rilevante ai fini della legge, anche quando facesse capo a parenti di primo e secondo grado, fratelli, padre, madre, mogli e figli, che non l'abbiamo acquistata con esborso di denari accertabile da organi competenti».
E con i prestanome come la mette? «In caso di trasferimento fittizio della proprietà dovrebbero essere previste la nullità sul piano del diritto civile e anche sanzioni penali».
Insomma, lei vuol privatizzare la Rai e obbligare Berlusconi a vendere Mediaset. «Berlusconi non sarebbe obbligato a vendere un bel niente. Avrebbe l'onere di vendere».
Un gioco di parole. «Il diritto è il diritto non solo contro ma anche a favore di Berlusconi. Nessuno può imporre a Berlusconi di vendere le sue tv: sarebbe contro la Costituzione. Ma se vuol fare il presidente del Consiglio avrà l'onere di farlo. Onere significa soddisfare una condizione - non possedere strumenti di condizionamento dell'opinione pubblica - per poter acquisire uno status che si legittima sull'opinione pubblica che si esprime attraverso le elezioni».
Dunque, se vuole palazzo Chigi, venda. «È così. Altrimenti faccia il deputato. E la regola, come ho detto, non vale solo per lui».
Berlusconi , si dice, vuol diventare presidente di una Repubblica presidenziale. L'incompatibilità si applicherebbe pure al Quirinale? «Credo bene! E da subito! E senza aspettare riforme costituzionali. Già oggi il presidente della Repubblica ha un potere di moderazione e arbitraggio molto delicato».
Ciampi lo dovrebbe esercitare sul conflitto d'interessi? «Se lo ritenesse lo dovrebbe fare, ma solo in forma riservata, perché il problema non deriva dalle leggi, ma per il momento solo da motivi di opportunità, oggetto di dibattito politico».
Il Quirinale si sta muovendo bene in materia? «Non mi sembra che si stia muovendo in alcun modo. E io mi muovo non contro Berlusconi, ma in difesa dell'Italia. Al 98 per cento dei nostri concittadini di questo problema non importa nulla, ma sul piano internazionale stiamo pagando».
L'eventuale legge Cossiga avrebbe valore retroattivo, nel senso: caro Silvio, o vendi o sloggi da Palazzo Chigi? «Non sotto il profilo dell'ineleggibilità, ma per quello dell'incompatibilità. Naturalmente con una giusta e ragionevole moratoria».
Perché è incompatibile Berlusconi e non Agnelli? «Perché Berlusconi, presidente del Consiglio, controlla strumenti che incidono sui meccanismi di formazione della volontà popolare. Agnelli ha la Fiat, che fabbrica autoveicoli. Se si limita a fare il senatore a vita, per lui bastano le regole degli altri parlamentari. Di più, in un regime capitalista non si può fare».
Agnelli, in verità, possiede anche giornali. «La stampa non è paragonabile alla tv. Anche perché lì c'è quella concorrenza che nella televisione manca».