Nel 1943 il suo reparto era stato massacrato dagli americani dopo la resa. Giuseppe Giannola è stato ferito e ha lottato per la memoria dei compagni, senza essere creduto. E oggi a 93 anni il Quirinale finalmente lo premia

Stragi Usa, premiato il superstite

Per oltre mezzo secolo nessuno gli ha creduto. La sua storia parlava di crudeltà gratuita, eccessiva persino nell'orrore della guerra. E aveva i protagonisti sbagliati. Ma Giuseppe Giannola non si è arreso. Ha continuato a testimoniare quello che aveva vissuto da ventenne in una mattina di luglio 1943 nella piana tra Caltagirone e Gela: il suo reparto massacrato dagli alleati dopo la resa. Trentasette soldati italiani uccisi a sangue freddo da un sergente americano, ore dopo la fine della battaglia. Un racconto apparso assurdo, inverosimile: i liberatori non fanno stragi. Giannola ha ripetuto il suo calvario davanti alle commissioni militari, ha mostrato le ferite e soprattutto ha chiesto giustizia. O quantomeno che la memoria dei suoi commilitoni venisse onorata. E solo ora la sua tenacia è stata premiata. Un monumento ricorda quell'eccidio e lunedì scorso il capo dello Stato lo ha insignito dell'onorificenza al merito di Ufficiale della Repubblica.

Giannola aveva ragione. Il massacratore dei suoi compagni era stato processato già nel 1943 dalla corte marziale americana, con un dibattimento tenuto sotto segreto. Non era stata l'unica strage: durante i combattimenti nella zona di Biscari, paese che oggi si chiama Acate, i militari statunitensi della 45ma divisione hanno ammazzato più volte i prigionieri italiani e tedeschi. Lo hanno fatto obbedendo a un ordine del generale George Patton, che aveva spronato i suoi comandanti a non risparmiare chi si opponeva agli alleati: «Il suo discorso era stato chiaro: "Non badate alle mani alzate, si fottano: nessun prigioniero. Mirate tra la terza e la quarta costola, poi sparate"». Ci sono stati almeno due eccidi, con una settantina di vittime, accertati dai giudici americani mentre oggi proseguono le indagini della procura militare italiana e le ricerche storiche su altri uccisioni di soldati e civili.

Il racconto di Giannola resta agghiacciante. Quel 14 luglio 1943 all'alba lui e i suoi commilitoni alzano bandiera bianca dopo avere resistito per giorni all'avanzata degli alleati, invasori e non liberatori. Sono avieri siciliani e fanti lombardi, armati di moschetti e qualche mitragliatrice, rimasti nelle trincee per fronteggiare un esercito potente. Nessuno è fascista, sono tutti di leva e, contrariamente ai luoghi comuni sullo sbarco nell'isola, sono restati al loro posto fino all'ultimo, senza fuggire.

Gli americani li hanno lasciati in mutande, senza scarpe, togliendo catenine, portafogli, piastrine di riconoscimento, e li hanno fatti marciare per ore verso le retrovie. Poi, in piena campagna, un sergente li ferma, imbraccia il mitra e spara sul mucchio: 37 prigionieri italiani muoiono sotto le raffiche. Giannola viene colpito al polso e si getta a terra. «Ho fatto solo in tempo a fissare l'immagine di quel sergente gigantesco, con il tatuaggio sul braccio, che impugnava il mitra. Poi i corpi degli altri mi sono caduti addosso. Non vedevo nulla, sentivo solo quegli scoppi che non sembravano finire mai. Prima raffiche lunghe, quindi delle esplosioni secche, sempre più rare. Erano i colpi di grazia». Aspetta oltre due ore e quando crede che gli americani siano andati via, si rialza. Ma si è sbagliato: gli sparano di nuovo, dritto alla testa. Il proiettile però lo colpisce di striscio e lo fa svenire.

Resta senza conoscenza e al risveglio capisce di essere solo. Cammina con il volto e le braccia coperte di sangue fino a una strada e si appoggia a un albero, per proteggersi almeno dal caldo asfissiante. Poco dopo arriva un jeep americana. Scendono in tre e si avvicinano a Giannola parlandogli in inglese: senza uniforme, lo hanno scambiato per uno dei loro feriti. Poi capiscono che è un nemico. Puntano un fucile sul cuore e fanno fuoco a bruciapelo. Si risveglia dopo giorni in un ospedale da campo alleato. Ha il petto trafitto: la pallottola ha sfiorato il cuore, perforando un polmone, ed è uscita dalla spalla. Ma è vivo. Sin dalla prigionia, Giannola ha messo a verbale quanto aveva vissuto sulla sua pelle. Lo ha ribadito al ritorno in patria, confermandolo anche in una deposizione del 1947. Senza essere creduto. Persino i suoi figli hanno dubitato delle sue parole mentre lui continuava a parlare dei suoi amici, coetanei siciliani come lui, rimasti al suo fianco nella battaglia e nell'ora della morte. Ha fatto il postino, è andato in pensione, sempre in attesa della verità.

Quando nel 2003 un'inchiesta del Corriere della Sera ha ricostruito gli eccidi, proprio i figli si sono accorti che quei fatti combaciavano perfettamente con i ricordi del padre. Giannola è stato intervistato, le sue parole hanno fatto il giro del mondo. E grazie anche all'impegno del senatore Andrea Augello tutti i nomi delle vittime delle stragi sono stati identificati. Lo scorso giugno è stato inaugurato un monumento alla loro memoria. E Giannola a 93 anni è finalmente riuscito a mantenere fede alla promessa: non li ha dimenticati.

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