Forza Laura, vinci la maledizione

La carica da presidente della Camera nella Seconda Repubblica non ha portato benissimo, politicamente parlando. La Pivetti è finita a Mediaset, Violante si è nebulizzato nei corridoi, Bertinotti organizza convegni e di Fini resta ben poco. Rimaneva solo Casini, ma è caduto pure lui. Speriamo che alla Boldrini vada meglio dei suoi predecessori

Negli ultimi vent’anni non sono serviti né cornetti anti jella, pur variamente appesi, né croci della Vandea, né medagliette della pace. La presidenza della Camera, pur grande onore, s’è rivelata di fatto una maledizione per chi l’ha abitata. E chissà, giusto una donna che ha lottato una vita «dalla parte degli ultimi» come Laura Boldrini, ha qualche chance di uscirne indenne. Irene Pivetti s’è ritrovata a condurre su Mediaset memorabili programmi come “Bisturi” o “Nessuno è perfetto”. Luciano Violante, per non morire, a degradarsi a capogruppo fino a nebulizzarsi tra i corridoi di palazzo.

Fausto Bertinotti, dissipati i buoni numeri rifondaroli, s’è rinchiuso per anni nella gabbia dorata della (poi soppressa) Fondazione della Camera e ad organizzar convegni su masse e potere.

Gianfranco Fini, dopo la rottura con Berlusconi, ha professato con coerenza il suo cupio dissolvi nella traversata del deserto, perdendosi tra le dune senza berberi.

C’era rimasto giusto Pier Ferdinando Casini a fare da eccezione: ma con l’addio alla guida dell’uddiccì, dematerializzato dieci giorni fa in un saluto di carta ai suoi, è caduto l’ultimo traballante birillo degli ex Presidenti di Montecitorio condannati alla malora politica. Più dei gatti, più del sale in terra, più dei cappelli sopra i letti: la terza Carica dello stato.

Un esito fisso di tutta intera la Seconda Repubblica, variando tra l’autodistruzione in solitaria e quella in compagnia dei rispettivi gruppi politici. Con la Pivetti poteva supporsi ancora il caso particolare, la parentesi da meteora: lei, per dire, mentre le cresceva la dissidenza nei confronti del leghismo duro e puro, aveva preteso di allestire l’appartamento presidenziale con macchine per il fitness e obbligato a distruggere le decine di lettere con fotomontaggi osceni che cittadini burloni inviavano alla sua persona. Due anni e via. Poteva finir là.

Nel 1996, con Luciano Violante si pensò per un attimo di poter tornare all’intransigente tradizione Pci-post Pci alla testa di Montecitorio - quella di Nilde Iotti, ma anche di Giorgio Napolitano. Tra le missioni affidate a Violante dal Partitone, c’era soprattutto la sfida della legalità: non facile, all’indomani della stagione delle stragi, e trovandosi come interfaccia a Palazzo Madama proprio Nicola Mancino (col quale tenne rapporti di cordialissimo gelo istituzionale). Per questa via, l’obiettivo suo divenne quindi la reconquista della Sicilia.

Autore di una bizzarra “Cantata per la festa dei bambini morti di mafia”, poemetto senza metro e (stando alle critiche) con scarse chance letterarie, iniziò a battere a tappeto, comune dopo comune, la Trinacria, dalle Madonie alle coste. Tra fiaccolate e commemorazioni, una task force di esperti in cose sicule, un consigliere ad hoc (ma piemontese), Don Ciotti e l’associazione “Libera” come scudieri. Il risultato alle elezioni del 2001 fu notevole: zero seggi ai Ds, nella Regione di Finocchiaro Aprile. Per premiarsi del bel successo, Violante pretese di guidare il gruppo parlamentare dei Democratici di sinistra. Innovando completamente alla tradizione per cui tale incarico sarebbe stato un passo del gambero troppo umiliante. E così fu.

Non andò meglio a Casini, che dal piano nobile del Palazzo, tra il 2001 e il 2006 organizzò la trincea per sparare all’alleato Berlusconi un giorno sì e l’altro pure, far sgambetti nell’organizzazione dei lavori parlamentari, organizzar fronde di voti segreti. Persi pezzi importanti del partito, Marco Follini e Carlo Giovanardi ad esempio, a fine mandato si ritrovò in panne. Dopo aver contribuito a consegnare il Paese al voto determinante dei senatori a vita (governo Prodi), Casini volle consolidare l’esperienza di Violante, tenendo per sé la presidenza del gruppo parlamentare dell’Udc (oltreché la leadership di fatto del partito). Chi era con lui, in quel primo drammatico depotenziamento, lo paragona alla mamma malata del film “Goodbye Lenin”; un manipolo di volenterosi si dovette infatti attrezzare per non fargli mancare nulla dei fasti da scranno, per non accigliarlo troppo, per non fargli sentire il passaggio epocale di vita.

Dopo un lungo braccio di ferro con D’Alema, fu Bertinotti a prendere il suo posto al primo piano di Palazzo Montecitorio. Grisaglia e parka, un po’ più grisaglia. Salotti e piazze, un po’ più salotti. Cambi di tappezzerie, cambi di sanitari, poco Guevara e molto design nelle centinaia di metri quadri a disposizione del nuovo Presidente e della signora Lella, che preferì per ragioni, - si intende - del tutto istituzionali trasferire armi e bagagli alla Camera, piuttosto che affrontare cinque chilometri dalla casa abitata nelle adiacenze del nobile quartiere romano del Coppedè. Poco spago a chi piantava, dei suoi deputati, marijuana nei vasi del cortile di Montecitorio, più attento a dare a Prodi del “brodino riscaldato”, o a evitare come la peste contatti con l’ex compagno Cossutta (ostinatamente considerato traditore), raccolse dalla Presidenza l’ottimo guiness di non superare lo sbarramento alle elezioni e di scomparire dalla scena. Salvo, poi, riadattarsi mezzo piano di Palazzo Theodoli per l’attività della Fondazione della Camera ed autopromuoversi a padre nobile e distante di una sinistra museale da giurassico.

E un altro leader, sfidando la maledizione da spada nella roccia, successe nella pretesa del “questo è mio”, novellandone peraltro gli esiti: Gianfranco Fini, in piena fase di asciugatura dei panni ex fascisti già sciacquati a Fiuggi e a Gerusalemme. E la cronaca è già storia; con i numeri relativi ottenuti pochi giorni fa, ha pagato il fornetto catacombale per l’oblio, con buona pace delle avvincenti tenzoni col Cavaliere. I costituzionalisti, come gufi appollaiati, per anni si sono sgolati (e si sgolano) a dire che il cambio di sistema elettorale, dal Mattarellum al Porcellum, non necessariamente comporta l’assegnazione delle Presidenze delle Camere alla coalizione vincente (sin qui lo si è invece fatto sempre) o che le irruente esternazioni politiche dei Presidenti del Parlamento ne compromettono per certo il successo futuro. Ma niente.

Nel crinale bipolare del «questo lo dico come politico» e «questo invece lo dico come Presidente», arte nella quale Fini s’è addottorato sempre più nel tempo, si è via via consumato il prestigio dello scranno, che aveva nell’assoluta imparzialità di conduzione dei lavori, il ticket per volare sul Colle più alto (come è stato per Oscar Luigi Scalfaro e Giorgio Napolitano).

E adesso, dopo che qua e là si è sentito aleggiare, come tra i cardinali del morettiano Habemus Papam, un “non io Signore, ti prego” che in questo caso ha a che fare con un insopprimibile senso di gatto nero, arriva Boldrini. Con un curriculum extra-politico che le dà molte più chances: anche perché i tempi di questa legislatura si prevedono assai più brevi.

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