"Il crollo dei tesserati del Pd non è un dramma Le elezioni non si vincono più con gli iscritti"

I dati sul forte calo di adesioni al Partito Democratico hanno riacceso le polemiche tra Bersani e la nuova guardia renziana. "Ma il modello di partito-ditta è morto, oggi c'è un modello nuovo e lo dimostrano l'esempio di Grillo e i casi esteri", spiega il politologo Roberto D'Alimonte

I dati sono incompleti, ma la tendenza è chiarissima: i tesserati nel Pd calano. E non è per forza una brutta notizia. Anzi. E’ il segno che il partito democratico si è adeguato ai tempi. Parola di Roberto D’Alimonte, politiologo e direttore del dipartimento di Scienze Politiche della Luiss.

Il professore non è per nulla sorpreso dai dati pubblicati da Repubblica, secondo i quali nel Pd i tesserati allo stato sono sotto i centomila. E - mentre i democratici si combattono a colpi di numeri e smentite - celebra il funerale della “ditta”, spiegando che dietro al calo dei tesserati c’è il segno dell’affermarsi di un’idea diversa di partito. Fatto non più di iscritti, ma di elettori: “Perché oggi non sono i militanti, ma i voti che servono a vincere”. Un partito molto “americano”, insomma. Con buona pace della “vecchia guardia”.

Cominciamo dai numeri, professore. Repubblica scrive che il Pd, allo stato, è sotto i centomila iscritti. Il vicesegretario Lorenzo Guerini ribatte che non è vero.
“I dati sui tesserati sono complicati, il processo stesso di raccolta è molto confuso e, comunque, i numeri non sono definitivi. Però c’è l’indicazione di una tendenza, che è confermata dai dati ufficiali. L’ultimo risale al 2012 e certifica circa cinquecentomila iscritti; nel 2011 erano seicentomila; nel 2007 quasi ottocentomila”.

Roberto D'Alimonte


Guerini punta a trecentomila, dice.
“Obiettivo ambizioso, non sarà facile raggiungerlo. Comunque dimostra la tendenza: anche se ci riuscisse, perdere in cinque anni cinquecentomila iscritti non è uno scherzo, è un fenomeno che va spiegato”.

Perché si verifica?
“Anzitutto, per misurarlo bisogna spiegare che in Europa non è molto diverso: il Labour è sotto i duecentomila iscritti, il partito socialista francese è tra i cento e i duecentomila. È diverso per la socialdemocrazia tedesca, che si trova tutt’ora sopra i 400 mila, in un paese che però conta 80 milioni di abitanti (contro i nostri 60 milioni) e dove la partecipazione è strutturalmente più forte. Diciamo, in sintesi, che nel mondo latino e in Gran Bretagna i partiti di sinistra hanno un numero di tesserati non particolarmente alto, che si mobilita nei momenti clou come le elezioni”.

E in Italia?
"La tendenza, che ora è in accelerazione, è iniziata ormai da un pezzo. Direi che è trentennale: il Pci degli anni Settanta contava milioni di iscritti. Da allora, è cambiata via via la natura del partito, con il declino delle ideologie: l’idea del partito come chiesa, o come fede, con tutte le sue liturgie e i suoi riti, non c’è più. I partiti sono diventati laici, secolarizzati: sono strumenti per vincere le elezioni. E qui veniamo al punto”.

Che punto?
“Il dato degli iscritti sottostima la militanza. Perché ormai i militanti non si iscrivono: partecipano. E in questo senso, i partiti stanno diventando più americani. Si mobilitano molto nel momento elettorale, per far vincere un candidato, una formazione. E in questo sono più in linea con la tendenza della società contemporanea”.

Un momento: ma allora Berlusconi, tanto vituperato per il suo partito liquido, è semplicemente arrivato prima degli altri?
“Sì, da questo punto di vista senza dubbio. Aveva anche un terreno più fertile: a destra l’ideologia era meno forte, e poteva contare sulla sparizione della Dc. Del resto, anche Veltroni, con la sua idea di partito leggero, è andato in quella direzione là”.

Ma poi, dopo Veltroni, si era tornati a un’idea più tradizionale di Pd, o no?
“Ma nel frattempo ci sono state alcune innovazioni che hanno accelerato la tendenza. Le primarie, per esempio: spostando le decisioni dai militanti ai simpatizzanti hanno indebolito gli incentivi a tesserarsi. Così, dopo gli incentivi simbolici legati alle ideologie, son venuti meno anche gli incentivi materiali. Peraltro, c’è anche il fattore economico: quali benefici ottengo dall’avere una tessera pagando, quando posso contribuire lo stesso alla vita del partito da mero simpatizzante?”.

Il venir meno del finanziamento pubblico, come si inserisce in questo quadro?
“Contribuisce a indebolire l’organizzazione del partito. Con meno soldi, ci sono meno funzionari. Ed erano quelli che una volta andavano sul territorio in caccia di tesserati. Un iscritto non si iscrive per caso: ci deve essere dietro la mobilitazione di qualcuno interessato a cercarlo. Oggi, invece, raccogliere le tessere per il povero Guerini è diventato più difficile: il partito è ridotto a lumicino, non si può permettere la struttura di una volta”.

C’è chi punta il dito contro manifestazioni come la Leopolda, o le altre manifestazioni e sedi in cui si fa politica, ma non sotto le insegne del Pd.
“Certo, anche questo contribuisce. Ma il fenomeno si era verificato prima: il think tank si era già spostato dalle sedi di partito alle fondazioni. D’Alema e Veltroni non possono lamentarsene. Le Frattocchie non ci sono più da un pezzo. Dopodiché è chiaro che Renzi ha accelerato il fenomeno: sta facendo del Pd un partito catch all, acchiappa tutti, per andare a prendere i voti disponibili a destra. Spogliarsi delle insegne serve anche a questo”.

Vogliamo metterci la personalizzazione della politica, magari, anche?
“Naturalmente. Renzi non è solo un capo carismatico, perché allora lo era anche Berlinguer. La differenza rispetto ai suoi predecessori la fa l’enfasi sul leader: in questo, è del tutto simile a Berlusconi”.

Occupa tutto in prima persona, persino i social network.
“Già, ma il ruolo di internet è fondamentale. E anche questo finisce per spiegare la razionalità del calo degli iscritti. Una volta il partito era anche una rete di comunicazione, si frequentava anche per quello. Oggi, tutta quella roba non passa più di là: si interagisce sui social media. E anche quello conta. Guardi il movimento di Grillo che, non dimentichiamolo, è il primo partito italiano: non ci sono le sedi, ma internet, i Meet up, e tutto ciò che è comunicazione”.

Vuol suggerire, alla fine, che il calo degli iscritti è una buona notizia?
“E’ cambiato il punto di vista. Se lo guardi con gli occhi degli anni Settanta, è un disastro. Con quelli di oggi, Renzi potrebbe dire: “So what?”. E allora? E’ un’idea diversa del partito: non servono più gli iscritti per vincere le elezioni”.

Ah no?
“Il povero Bersani continua a parlare di Ditta: ma con le elezioni del 2013 è morta la vecchia guardia, l’idea stessa della Ditta come tale. Prendere i voti nell’Italia di oggi è diverso da come era nell’Italia in cui è nato e cresciuto Bersani e tutta la sinistra nata nel dopoguerra. Mi rendo conto che provochi fastidio e malinconia non vedere più il partito di una volta. Ma questo è il mondo in cui viviamo, la realtà. Se non la riesci a cambiarla ti devi adattare, o diventi marginale”.

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