Tutt'altro che cancellate, anzi. Per loro sta per iniziare una seconda vita. Sono in arrivo ?64 nuovi presidenti e consigli. Votati da sindaci e colleghi. Fra liti e inciuci. Ecco la mappa
Il Palazzo della Provincia? È sempre lo stesso. La poltrona? Ancora occupata. I dipendenti? Ci sono tutti. Una cosa è cambiata, però, sono state cancellate le indennità. «Ma lei lo sa quanto prendevamo?», domanda Roberto Vasai, ex (e futuro) presidente della Provincia di Arezzo: «A fine anno erano duemila euro a testa di gettoni. In pratica il nostro consiglio costava, in tutto, come un senatore».
Eccole che tornano, le immortali Province d’Italia. Le hanno chiamate baracconi, enti inutili, covi di fannulloni. Il governo Renzi ne ha celebrato l’abolizione come fosse il funerale degli sprechi di Stato. E invece stanno lì. Come e più di prima. Con i loro vertici, eletti solo dai sindaci e dai consiglieri comunali, anziché dal popolo, ma sempre seduti a gestire nomine, competenze, servizi.
Nuova fase costituente o inciucio da Terza repubblica? Se lo chiedono in molti mentre parte la riforma che porta il nome del sottosegretario Graziano Delrio. Quella che farà sì, entro il 12 ottobre, che ben 64 presidenti di provincia e 8 sindaci metropolitani (per le grandi città come Roma, Napoli, Bari ecc.) tornino al comando dei loro enti. Due schede e preferenza secca, in teoria. In pratica un grande accordo fra partiti e partitini per piazzare il candidato amico, prova generale di quello che sarà - se la riforma Renzi diventerà legge costituzionale - anche il nuovo Senato della Repubblica.
[[ge:rep-locali:espresso:285132335]]FRA LISTE CIVICHE E “ACCORDUNI” E così, da Nord a Sud avanza il “partito unico del territorio”. Entità della politica 2.0 che va ben oltre il patto del Nazareno. Listoni unici trasversali che sostengono un solo candidato, capace di mettere d’accordo destra, sinistra e centro. Spuntano liste civiche ovunque. Dai nomi suggestivi come “Provincia Insieme”, “Insieme per la Provincia”, “Territorio e Libertà”. Ma spesso, anche quando i simboli sulla scheda sembrano contrapposti, a guardar bene il candidato presidente è soltanto uno.
Chi ha più mal di pancia è Sel, a sinistra, assieme alla Lega Nord di Matteo Salvini. Allergici a Renzi e ai governissimi, ma soprattutto consapevoli che dall’amalgama hanno tutto da perdere in vista delle politiche. Tanto che un furibondo Nichi Vendola, nella sua Puglia, ha fatto fallire l’accordo tra Brindisi e Taranto. Da una parte doveva esserci un nome della sinistra, dall’altra uno di destra. Nichi s’è impuntato, ha battuto i pugni, ha detto che «no, non si fa». Morale: nonostante l’anatema presidenziale, il candidato forzista Martino Tamburrano, sindaco di Massafra, ha vinto comunque. E con numeri tali da far pensare che il Pd, zitto zitto, abbia votato per lui. Alla faccia del signor governatore.
In Calabria, poi, già lo chiamano “l’accorduni”. A Vibo Valentia, per esempio, è stato eletto Andrea Niglia, sindaco di Briatico, che nella lista “Insieme per la Provincia di Vibo Adesso”, riuniva i renziani del Pd, Ncd, Forza Italia e Fratelli d’Italia, contro una lista alternativa, anche questa targata Dem.
Ma neppure il Nord s’è tirato indietro. In Lombardia, l’intesa bipartisan è più la regola che l’eccezione. A Bergamo, il piddino Matteo Rossi attraverso la sfumata formula della “libertà di voto” ha beneficiato dei consensi di Forza Italia e Ncd. Idem a Brescia per il sindaco Pd di Cenegolo, Pier Luigi Mottinelli. Candidato unico «oltre i partiti». A Como corre Rita Livio, battagliero primo cittadino di Olgiate Comasco, che teorizza: «La nostra lista è di centrosinistra con inclusioni di centrodestra». Quello che, nel vocabolario anti-casta, si chiama “inciucio”.
L’elenco è lungo: a Lecco, Flavio Polano, ex boy scout come Renzi, è sostenuto da destra e da sinistra. I nomi delle civiche sono praticamente identici, l’illusione è che la politica non c’entri nulla. E invece sono tutti d’accordo. Come a Cremona, dove dalla larga, larghissima intesa si è smarcata solo la Lega.
In Piemonte, addirittura, «l’accordo bipartisan è stato fatto a livello regionale», racconta il forzista Osvaldo Napoli, fra i registi dell’intesa. A disturbarlo, solo M5s e Carroccio. Candidato unitario quindi a Cuneo e Asti e super intesa a Torino, dove Piero Fassino tiene insieme Pd, Fi e Ncd. «Un’ammucchiata», protestano i padani. «Patto istituzionale», è la versione del segretario regionale del Pd, Davide Gariglio.
Così fan tutti, scendendo lungo la Penisola. A Potenza tornerà a Palazzo il presidente uscente Nicola Valluzzi, più centro che sinistra. E persino nelle regioni rosse, la politica del male minore tiene botta. A Pesaro, Forza Italia sostiene convinta il candidato Daniele Tagliolini, responsabile provinciale Enti Locali del Pd e sindaco di Peglio, piccolo comune dell’entroterra. Tutti nella lista all inclusive “Provincia dei Sindaci”. Un progetto che Giovanni Gostoli, segretario provinciale Dem, rivendica: «I partiti devono fare un passo indietro, il futuro è questo». Non dirglielo ai leghisti: «Lì c’è solo partitismo, poltronismo e segreterie». Ad Ancona e Ascoli cambia poco: liste separate, candidato unico, sempre del centrosinistra. E via accordandosi pure in Emilia Romagna dove la ciliegina sulla torta è nella rossa Ferrara, dove la grosse Koalition è addirittura più larga del solito. A sostegno del sindaco del capoluogo Tiziano Tagliani che punta alla poltrona in Provincia, ci sono anche Lega e M5S. Non avanza proprio nessuno.
GUERRA DI POLTRONE Dove non si trova un accordo, le nuove Province servono a regolare vecchi e nuovi conti in sospeso. Così Pd e Forza Italia hanno ingaggiato più di qualche zuffa interna, con l’obiettivo di piazzare i propri uomini. Basta fare un giro a Benevento, dove il Pd si spacca tra renziani e vecchia guardia. I fedelissimi del premier presentano la lista “Il Sannio cambia verso”, ma non tengono insieme tutto il partito e, puff, spunta una seconda civica targata Dem. L’esito è una guerra interna, come non se ne vedevano da tempo. Sarcastico Clemente Mastella, che con il suo Udeur a Ceppaloni ha dominato un’era: «Passi l’alleanza istituzionale e apartitica, ma mi colpisce l’effervescente battaglia per una cosa che muore tra due anni...», dice.
Un poltronificio, insomma, come pure nel Lazio. A Roma si vota domenica 5 ottobre. I seggi saranno a Palazzo Valentini, storica sede della Provincia nel cuore della capitale, trasformata ormai in città metropolitana. Ufficialmente la platea è di 1.680 votanti da Ariccia a Frascati, ma col voto ponderato contano di più i voti dell’Urbe. E così Ignazio Marino sarà sindaco metropolitano senza fatica, ma non senza ferite: lo scontro tra ras locali è sul nome del vicesindaco (con relative deleghe), così forte da squarciare la segreteria di Fabio Melilli. Che nella sua Rieti non riesce a fare una lista con il simbolo del partito.
Ma il caso più eclatante, dove già si minaccia di chiamare i probiviri, è Frosinone. Lì si danno battaglia due tronconi del partito: il Pd ufficiale schiera il trentaduenne Enrico Pittiglio, il più giovane sindaco della Ciociaria, mentre la fazione guidata dal senatore Francesco Scalia ha messo in campo il sindaco di Ferentino Antonio Pompeo. Un derby tutto Pd, anche se il secondo si è disinvoltamente accordato con Ncd, Fratelli d’Italia e Forza Italia, che da quelle parti è in mano a Mario Abruzzese, già presidente del consiglio regionale del Lazio e sodale di “Batman” Fiorito.
Nel Veneto è la Lega che la fa da padrone. Mentre i cugini di Forza Italia si dividono in mille rivoli. A Verona le liste salgono a sei: il centrodestra schiera il sindaco di Roveredo di Guà Antonio Pastorello, sostenuto da Lega e da una civica di Flavio Tosi, oltre che dall’ala di Forza Italia che fa capo a Cinzia Bonfrisco. Dall’altra parte mezzo partito berlusconiano sostiene invece il candidato del Pd Giovanni Peretti. Anche a Padova è sfida a destra: Forza Italia e l’ala leghista del sindaco Massimo Bitonci stanno con il primo cittadino di Albignasego Max Barison, mentre altri amministratori azzurri (si dice con la benedizione di Niccolò Ghedini) e il Carroccio di Tosi supportano il candidato Pd, il giovane sindaco “indipendente” di Selvazzano Enoch Soranzo.
INTERESSI E APPETITI SEMPREVERDI È davvero tutto come prima? Guai a dirlo, però, nella rossa Toscana. L’ex presidente della Provincia di Arezzo, Roberto Vasai, sta per essere rieletto sulla sua stessa poltrona ma, a chi glielo chiede, risponde stizzito: «Ci chiamano casta, ma le Province sono state il braccio operativo delle Regioni a costo bassissimo. Adesso torniamo lì, gratis, a mandare avanti scuole, strade, formazione e ambiente. Senza avere idea di cosa intenda davvero fare il governo», si sfoga.
Eppure i soldi nelle casse fanno gola a molti. Perché dove c’è denaro c’è potere. Soprattutto in tempi di vacche magre: «Le province continuano a essere centri di potere che muovono centinaia di migliaia di euro», spiega Cosimo Latronico, coordinatore lucano di Fi e critico della riforma Delrio. Appalti, contratti di servizi, clientelismo. Caserme da dismettere, strade da aggiustare, discariche da controllare.
Perché mamma Provincia ha quattro mammelle. Quattro aree di intervento potenzialmente redditizie. La formazione, cioè centri di impiego, ex uffici di collocamento, uno dei pochi bacini elettorali rimasti. Le scuole superiori, che vuol dire lavori edili, manutenzione, riscaldamento. Poi la viabilità: centinaia o migliaia di chilometri di strade con il manto da rifare. E, infine, l’ambiente. Non solo bracconaggio e licenze di pesca, ma certificati e autorizzazioni ambientali, fra discariche e impianti, rifiuti tossici e sversamenti di liquami nei corsi d’acqua. Chi controlla? Soltanto la Corte dei Conti.
Non ditelo al nuovo super-sindaco Ignazio Marino che si prepara a guidare tutto il territorio ex provinciale. A Roma, arriveranno dalle mani del commissario prefettizio circa 700 milioni di euro. «Per fare che?», si domandano i futuri consiglieri. «Le strade provinciali o quelle della capitale?». Qualche dubbio c’è: «Il pericolo è che quel tesoretto vada a ripianare il buco del Campidoglio anziché servire per la provincia. Una cassaforte per salvare Roma dal default», sussurra un deputato. Ma come si fa ad aggirare la legge? Facile: «Si fa all’italiana... Tu scrivi che rifai la via Tiburtina, che è in parte provinciale, a spese del tesoretto. Poi parti da Roma centro e, con quello che risparmia Marino per la sua parte, rifà i sanpietrini che vuole. Una partita di giro sulle competenze, e il gioco è fatto. A spese di Civitavecchia». Tanto le province, ufficialmente, sono abolite.