In occasione degli auguri alle alte cariche dello Stato il presidente bacchetta oppositori e minoranza Pd. E difende il premier in vista dei prossimi scontri parlamentari, a partire dalla successione al Quirinale

Napolitano: nessuno tocchi Renzi

Nella sua autobiografia “Dal Pci al socialismo europeo” (Laterza), pubblicata nel 2005 prima di essere eletto presidente, Giorgio Napolitano aveva citato nella pagina finale Plutarco per dire che «l'importante è fare attività politica, non averla fatta». L'eredità di un uomo totus politicus, nato nell'era dell'onnipotenza della politica e vissuto abbastanza a lungo da dover affrontare la stagione della sua impotenza. Questa sera al Quirinale il presidente, sempre più vicino a lasciare il suo mandato, ha ancora una volta dimostrato cosa intenda per fare politica. Ci si aspettava un discorso di congedo, qualche punta di commozione, un bilancio di questo secondo mandato presidenziale. E invece ecco rimproveri, rimbrotti, qualche autentico schiaffone, una punta di malizia, l'indicazione dei buoni e dei cattivi.

Tredici cartelle per dire che nelle prossime settimane, tra le più complicate della storia repubblicana, con non una ma ben due operazioni a cuore aperto (la riforma della legge elettorale al Senato, la riforma della Costituzione alla Camera) e con l'imminente apertura del seggio per la successione al Quirinale, nessuno può attentare alla continuità. Delle istituzioni e del governo Renzi. «Non si attenti in qualsiasi modo alla continuità di questo nuovo corso».
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Il salone dei Corazzieri al Quirinale è già affollato alle cinque del pomeriggio. Di ministri, generali,  prefetti, presidenti di qualcosa, ex presidenti, aspiranti candidati presidenziali... Nel cortile c'è l'abete di Natale, le scale sono illuminate a giorno, sulle guide rosse c'è un su e giù incessante di alte cariche, come recita il protocollo. Massimo D'Alema seduto accanto a Gianfranco Fini, Walter Veltroni dietro Enrico Letta che un anno fa era seduto accanto al presidente come premier, dietro la coppia piemontese Piero Fassino e Sergio Chiamparino. Susanna Camusso sovrastata da un corazziere. Raffaele Cantone, il magistrato che guida l'Anti-corruzione, felicissimo di esserci.

Lo Stato, al gran completo, venuto ad assistere all'ultimo discorso di auguri di Napolitano da presidente della Repubblica.

L'enfasi viene tutta affidata al saluto del presidente del Senato Pietro Grasso («Ci rivolgiamo a lei con gratitudine... Auspichiamo che si possano superare le difficoltà con lungimiranza...»). Napolitano liquida subito la curiosità sulla data delle sue dimissioni (tra le righe: subito dopo il 13 gennaio, la data in cui termina ufficialmente il semestre italiano di presidenza europea). E passa al tema che più gli sta a cuore.

Riletto da Napolitano, l'anno che si chiude è quello della «mancata ripresa del Pil, con l'andamento negativo dei consumi e il livello insopportabilmente alto della disoccupazione giovanile, con qualche instabile miglioramento». E poi «il mostro della corruzione» con i suoi intrecci mafiosi. Il crescere della «tensione»... In questo cammino oscuro lastricato da trappole e precipizi il presidente vede una sola luce: il governo guidato da Matteo Renzi.

Un anno fa il sindaco di Firenze appena eletto segretario del Pd si era presentato al Quirinale con un vestito clamorosamente sbagliato per l'occasione, grigio ghiaccio, a segnalare visivamente la sua diversità dall'establishment, alla fine era andato via senza avvicinarsi al buffet a omaggiare il presidente, fiero sostenitore del governo di Enrico Letta. Un gesto poco educato, non sfuggito all'inquilino del Colle. Diffidenza e lontananza.

Dodici mesi dopo Renzi è in blu accanto al presidente. L'establishment è lui. E Napolitano lo riconosce, mai un discorso così caloroso con un inquilino di Palazzo Chigi, neppure con Mario Monti che si aggira in sala stranito. Il risultato del 25 maggio, il 40,8 per cento alle elezioni europee, «ha oggettivamente accresciuto l'ascolto dell'Italia nel concerto europeo».

Il governo «ha operato validamente, e con senso di maggiore sicurezza» in Europa, «molto ha contato il valore e l'affidabilità che si riconoscono al ministro Padoan». Il ministro che Renzi neppure conosceva, fortemente voluto da Napolitano, oggi indicato come un possibile successore al Quirinale. E poi l'attacco a chi indugia sulle riforme con «spregiudicate tattiche emendative», fendenti sarcastici contro i «nati ieri (ovvero il febbraio 2013)» e perfino contro chi nel Pd soffia sulla scissione: «tempo, e inchiostro sottratto ai problemi reali», tuona Re Giorgio. L'affondo finale: «Non si attenti in qualsiasi modo alla continuità di questo nuovo corso».

Un discorso tutto d'attacco. Che però segnala una preoccupazione per le settimane che verranno. Nella sala del buffet, nei capannelli e in fila per salutare il presidente, il clima talmente natalizio che Renzi bacia e abbraccia due donne che gli hanno dato qualche fastidio negli ultimi mesi. Prima Rosy Bindi, poi Susanna Camusso. Ovunque ti volti ci sono Orfini, Orlando, Boschi, Delrio, Marino, è un monocolore del Pd renziano, con qualche spruzzatina di Alfano. La minoranza del Pd non c'è. I grillini neppure. Per la Lega c'è il mite senatore Raffaele Volpi. Di Forza Italia si vede solo Laura Ravetto, ma lei è una dialogante.

In questa serata al Quirinale il Pd di Renzi è qualcosa di più del partito di governo, forse perfino più del partito della Nazione. È il nuovo partito-Stato, stretto attorno al suo premier e al suo presidente. Alla vigilia della prova più impegnativa. Perché questa sera chi nel mondo politico o extra-politico vuole «attentare» al nuovo corso non c'è o non si vede. Perché invocarlo, allora?

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