Gli uomini di fiducia di Renzi, da DelRio a Guerini, vengono dalle fila dell'Anci. E il primo cittadino diventato premier conta di far entrare i suoi ex colleghi nei gangli vitali dello Stato. Per blindare il governo ma non solo: per basare la terza Repubblica sulle fasce tricolori

E perché mai ai sindaci che sono stati eletti da centinaia di migliaia di cittadini non dovrebbe essere permesso di votare per cambiare la Costituzione?». Già, perché no? E perché non dare ai primi cittadini la possibilità di partecipare alla scelta dei giudici della Corte costituzionale, alla nomina dei membri senza toga del Consiglio superiore della magistratura, al voto per il nuovo Presidente della Repubblica? Come si fa a dire di no, soprattutto se a chiederlo è il primo cittadino della Nazione, il sindaco d’Italia, passato per la prima volta nella storia direttamente da un ufficio municipale a Palazzo Chigi, dall’inaugurazione di una piazza ai vertici internazionali con Barack Obama? Un anno fa, di questi tempi (era il 9 aprile), il Pd della Toscana rifiutò di inserire il sindaco di Firenze Matteo Renzi tra i tre delegati della regione da spedire a Roma per eleggere il nuovo Capo dello Stato. «Non aveva i requisiti istituzionali», fu la motivazione ufficiale, un sindaco grande elettore del presidente era considerato uno strappo alla regola.

Un’umiliazione non dimenticata da Renzi. E se la riforma della Costituzione votata dal Consiglio dei ministri il 31 marzo sarà approvata senza cambiamenti dal Parlamento, diventerà impossibile escludere i primi cittadini dalla scelta del prossimo presidente, come da tante altre cose.

 

Matteo Renzi e Graziano Delrio

Tutto il potere ai sindaci. La Prima Repubblica era fondata sui partiti, la Seconda sul conflitto di interessi (di stampo berlusconiano, ma non solo), la Terza, quella immaginata da Renzi, si baserà sulle fasce tricolori. Simile, in questo, alla Terza Repubblica francese di un secolo fa, quando nel 1884 l’elezione diretta dei primi cittadini dotati di poteri molto estesi diede inizio a una lunga serie di presidenti cresciuti nelle ammistrazioni locali che arriva fino a noi e alla Quinta Repubblica: François Mitterrand sindaco di Château-Chinon, Nicolas Sarkozy di Neully-sur-Seine, Jacques Chirac di Parigi... Ma le riforme renziane assegnano ai borgomastri italiani una centralità sconosciuta agli altri ordinamenti europei.

Nel disegno di legge svuota-province le attuali competenze dei presidenti di Provincia passano ai primi cittadini e ai consigli comunali: sceglieranno sul territorio della provincia un presidente (tra i sindaci) e i consiglieri provinciali (tra i sindaci e i consiglieri comunali). Nello stesso provvedimento vengono formalizzate le aree metropolitane, quasi un quarto di secolo dopo la loro istituzione, che prenderanno il posto delle attuali province a Torino, Genova, Milano, Venezia, Bologna, Firenze, Bari e Napoli: a presiederle, inutile dirlo, sarà il sindaco del comune capoluogo. Accontentati i rappresentanti delle grandi città, resta da gratificare l’esercito dei piccoli sindaci. I primi cittadini dei Comuni sotto i tremila abitanti, che coprono quasi il settanta per cento dei municipi italiani, potranno essere rieletti per un terzo mandato e saranno affiancati da dieci consiglieri comunali e due assessori.

La novità più importante, però, viene inserita nella nuova Costituzione riscritta dal governo Renzi. Dopo anni di discorsi a vuoto sul Senato delle regioni, spunta il Senato delle autonomie dove a farla da padroni saranno i primi cittadini: tre senatori per regione, il numero uno del comune capoluogo e due colleghi, eleggeranno insieme alla Camera dei deputati il capo di Stato, due giudici della Consulta, alcuni membri del Csm. Una mediazione rispetto alla proposta iniziale di Renzi, presentata alla direzione del Pd del 6 febbraio, decisamente più hard, prevedeva un Senato composto da 150 membri, tra di loro 108 sindaci. «Per la conformazione storica, geografica e culturale dell’Italia, la seconda Camera deve essere incentrata più sui sindaci che sui consiglieri regionali», aveva spiegato il segretario-sindaco di Firenze.

Nella prima bozza presentata dal ministro delle Riforme Maria Elena Boschi i sindaci-senatori non erano vincolati alla scadenza del loro mandato comunale, sarebbe stato possibile eleggere senatori per cinque anni anche i primi cittadini arrivati a fine corsa nella loro città: illustri pensionati. Una distrazione, forse, sparita dal nuovo testo scritto materialmente dal capo dell’ufficio legislativo della ministra renziana Cristiano Ceresani, lo stesso del predecessore Gaetano Quagliariello. Ma significativa per spiegare quanto conti il partito dei sindaci nell’attuale governo.

Fino a qualche anno fa era soltanto un’immagine mediatica: il partito dei sindaci anni Novanta, i primi a essere eletti direttamente dai cittadini, Francesco Rutelli a Roma, Massimo Cacciari a Venezia, Antonio Bassolino a Napoli, Enzo Bianco a Catania, Leoluca Orlando a Palermo, sembrava destinato a espugnare il quartier generale a Roma. Ma il potere centrale dei partiti era ancora forte, le segreterie romane respinsero con facilità l’assalto di quelli che Massimo D’Alema chiamava «i cacicchi». I sindaci, popolarissimi nelle loro città, trasportati a Roma furono ridimensionati in un grigio notabilato, gratificati con qualche incarico ministeriale concesso dai leader nazionali. E nel Duemila partì il fenomeno opposto, ritirarsi nelle città per superare un momento di difficoltà politica, vedi Walter Veltroni a Roma.

Oggi il partito dei sindaci non è più una suggestione giornalistica. Se n’è accorto anche Beppe Grillo quando durante le consultazioni per il nuovo governo è sbottato: «Che ci fate qui? Dovreste stare nelle vostre città!». Si riferiva al trio di guida del governo e del Pd: oltre al sindaco Renzi, il sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio (già sindaco di Reggio Emilia) e il vice-segretario del Pd Lorenzo Guerini (ex sindaco di Lodi). Un terzetto reso inossidabile dalla comune frequentazione dell’Anci, l’associazione dei comuni italiani, il vero potere forte del renzismo, nel governo a fare da motore c’è il sottosegretario Angelo Rughetti, per un decennio uomo-macchina dell’organizzazione (vedi box p.48). E tra i ministri c’è un altro sindaco, la calabrese Maria Carmela Lanzetta, che fu costretta a dimettersi dal comune di Monasterace dopo le minacce della’ndrangheta e l’isolamento politico.

Nella storia dell’irrestibile ascesa renziana va cerchiata la data del 5 ottobre 2011. Quel giorno l’Anci è chiamato a eleggere il suo nuovo presidente e il Pd che esprime la maggioranza delle fasce tricolori si spacca tra due candidati. Il più forte sembra Michele Emiliano, popolarissimo sindaco di Bari, può contare sul voto dei comuni del Sud e soprattutto sull’appoggio di D’Alema e del segretario Pier Luigi Bersani. A sorpresa, invece, la spunta l’emiliano Delrio, fino a quel momento quasi sconosciuto. A farlo votare è stato il collega di Firenze, il trentaquattrenne Renzi che fa il pieno di consensi tra i giovani dell’Anci. E un pacchetto di voti arriva dai sindaci di centro-destra, su cui domina il deputato piemontese Osvaldo Napoli, primo cittadino del minuscolo comune di Valgioie in provincia di Torino, appena 950 abitanti, padre nobile dell’Anci. Una piccola larga intesa. Si salda già allora un doppio asse: quello tra Renzi e Delrio e quello tra l’ala moderata di Forza Italia (all’epoca ancora Pdl) e i giovani leoni del Pd venuti dalle città e decisi a conquistare il Palazzo romano senza chiedere il permesso a nessuno.

Operazione compiuta, fin troppo. Il Pd di Renzi coincide con il partito dei sindaci, alle prossime elezioni europee Emiliano (nel frattempo diventato sostenitore del premier-segretario) sarà il capolista nella circoscrizione Sud, Giusy Nicolini, che sorveglia la trincea di Lampedusa, potrebbe guidare la lista del Pd nelle Isole. «Il programma delle riforme del governo Renzi è integralmente quello dell’Anci», fa notare la vice-presidente del Senato Linda Lanzillotta. «La prossima Camera non dovrà chiamarsi Senato delle regioni ma delle autonomie», teorizzava in effetti Delrio già nel 2011, proposta rilanciata on line dal quotidiano del Pd “L’Unità”. E un gran numero di novità, dal terzo mandato per i piccoli sindaci alle aree metropolitane che sostituiscono le vecchie province, erano già contenute nella Carta delle Autonomie presentata dall’ex ministro Enzo Bianco tre anni fa: oggi è tornato a fare il mestiere di sindaco, a Catania. «C’è solo un problema», ridacchia Napoli. «L’Anci non ha più senso di esistere, si è trasferita a Palazzo Chigi e a Palazzo Madama, rischia la chiusura». Solo una battuta, perché la lobby è in ottima salute e può puntare all’obiettivo grosso. Oltre al sindaco a Palazzo Chigi, un sindaco al Quirinale, candidato alla successione di Giorgio Napolitano: l’attuale presidente dell’Anci, il torinese Piero Fassino.

Nell’attesa c’è il nuovo potere che avanza dalle città e che smantella quel che resta dei vecchi partiti. Perfino il sindaco di Parma Federico Pizzarotti ha capito la lezione e si è ritagliato il ruolo di voce critica sulle candidature alle europee nel Movimento 5 Stelle, rispettato da Grillo: facile espellere cinque senatori, più difficile richiamare all’ordine un sindaco. E nella devastata Forza Italia cresce la stella di Alessandro Cattaneo, giovane sindaco di Pavia, il più popolare d’Italia stando al sondaggio annuale del “Sole 24 Ore”. Uno studio che rileva come nell’ultimo anno il gradimento sia crollato: sei sindaci su dieci hanno perso consenso, i cittadini disposti a confermare i loro amministratori sono sempre di meno, tra tasse in aumento e servizi sempre scadenti. Importa poco, però. I sindaci che sbarcano nel Palazzo romano sono l’ossatura della Repubblica che verrà, il vero partito di Renzi, altro che Pd. «Se passa la riforma del Senato il novanta per cento dei senatori-sindaci sarà del centro-sinistra, o meglio ancora, essendo eletti non dai cittadini ma dai loro colleghi, saranno di impronta renziana», prevede Napoli.

Un Senato formato da primi cittadini, oltre che dai consiglieri regionali, ma senza gruppi parlamentari e dunque senza una reale appartenenza politica. E una Camera eletta con l’Italicum, con il doppio turno che assegna alla lista o alla coalizione del candidato premier vincente un premio di maggioranza (non così eccessivo, in verità), un meccanismo molto simile a quello in vigore dal 1993 per le elezioni comunali, somigliante agli attuali consigli comunali in cui i gruppi di maggioranza contano molto poco e quelli di minoranza ancor meno. È il sistema politico che uscirebbe dalla guerra per le riforme cui l’inquilino di Palazzo Chigi lega il suo futuro politico. Una Repubblica fondata sui sindaci. Guidata dal sindaco d’Italia, Matteo Renzi.

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