Loro rivendicano risultati storici, gli avversari li accusano di non aver concluso nulla. Siamo andati a vedere l’attività svolta e i risultati portati a casa dai 5 Stelle. Fra sorprese, rivelazioni e un bottino meno magro di quanto si pensi

Beppe Grillo assiste in tribuna ospiti in Senato durante l'esame del DDL sulle Riforme, Roma 15 Luglio 2014. ANSA/GIUSEPPE LAMI
Prima la promessa: «Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno». Poi l’ammissione, quasi sconfortata: «La scatola di tonno è vuota». Estreme e radicali come sempre, queste due affermazioni di Beppe Grillo - pronunciate fra febbraio e luglio 2013 - in un certo senso rappresentano l’evoluzione del Movimento 5 stelle prima e dopo l’ingresso nel Palazzo. Raccontano infatti la scissione fra l’aspirazione salvifica al cambiamento immediato e il duro richiamo alla realtà che si tinge di toni apocalittici.

Ma se le cronache sono piene di articoli sui contrasti interni o la svolta “dialogante” del dopo-Europee, nessuno si è soffermato su quel che il M5S ha fatto davvero in Parlamento e quali sono i risultati che può rivendicare a buon diritto. L’Espresso, con la collaborazione di Openpolis, ha provato a colmare questa lacuna.

SGOBBONI E FEDELI ALLA LINEA?
Primo dato: con oltre l’80 per cento di presenze, i grillini sono i parlamentari più presenti. E qui c’è la prima sorpresa perché i più assidui sono due nomi poco noti alle cronache, a dimostrazione che - anche senza andare in tv - c’è chi svolge il proprio lavoro nell’ombra: il deputato viterbese Massimiliano Bernini (96 per cento), impegnato principalmente sui temi ambientali, e il senatore torinese Alberto Airola (98,7 per cento), attivo soprattutto in materia di diritti civili.

Parlamento, le presenze dei gruppi


Seconda sorpresa: in testa alle assenze (la mancata partecipazione alle votazioni elettroniche in Aula) figurano vari fedelissimi di Beppe Grillo e con ruoli di primo piano nelle dinamiche interne del Movimento, come Laura Castelli e gli ex capigruppo Riccardo Nuti e Paola Taverna. Un dato meramente quantitativo che non rispecchia il lavoro svolto nel suo complesso (ad esempio in commissione) ma che comunque ridimensiona il luogo comune che dipinge gli allineati come degli intransigenti stacanovisti e i dissidenti come opportunisti interessati quasi solo alla diaria.

M5S, i parlamentari più assenteisti alle votazioni *

* Dati aggiornati al 13 luglio


Terza sorpresa: essere “falco” sulla condotta interna non sempre coincide con l’allineamento alle posizioni del gruppo in Aula. Lo dimostra il caso della deputata Giulia Grillo, primatista per voti difformi alla Camera. Ben poca cosa, tuttavia, rispetto a Palazzo Madama, dove l’indisciplina è assai maggiore. E dove a guidare la classifica c’è Serenella Fucksia, senatrice che più volte è stata a un passo dall’espulsione per le sue posizioni eretiche.

M5S, i deputati e i senatori che hanno votato più spesso in disaccordo col gruppo *

* Dati aggiornati al 13 luglio


I CONTROLLORI
«Li controlleremo» aveva assicurato Grillo minaccioso rivolto al Palazzo dopo il voto. E in effetti, come si conviene a una forza di opposizione, il fronte sul quale i pentastellati si sono dimostrati più attivi è proprio il sindacato ispettivo: le interpellanze e le interrogazioni sono state in tutto 3.767, oltre 25 per singolo parlamentare. Solo il Pd ha fatto di più in termini assoluti (4.185) ma in media deputati e senatori democratici hanno presentato “solo” una decina di atti di controllo ciascuno.

Fra i dicasteri più bersagliati dalle interrogazioni figurano le Infrastrutture e Trasporti (351, anche per la competenza su Expo e Tav), il Viminale (341) e il Lavoro (324). Tanto impegno non è stato però granché ripagato dal governo, che ha risposto solo 958 volte. Insomma, tre interrogazioni grilline su quattro risultano ancora inevase dall’esecutivo: solo FI e Ncd hanno tassi più bassi. Maglia nera, i ministeri della Giustizia, il dipartimento dell’Integrazione e la Presidenza del Consiglio, che hanno risposto appena 1 volta ogni 10.

Interrogazioni e interpellanze presentate dai partiti


IL GRANDE INGORGO
Non va meglio con la proposte di legge, che si affastellano in Parlamento senza mai giungere in porto. Erano già duemila a tre mesi dalle elezioni, rilevò l’Espresso un anno fa. Oggi sono quasi il doppio. C’è poco da stupirsi dunque se - sulle circa 300 depositate dal Movimento 5 stelle - l’80 per cento non abbia ancora iniziato l’iter in commissione.

Iter dei ddl presentati dai M5S


E se la tendenza è di firmare collettivamente i progetti di legge ed evitare iniziative solitarie, c’è chi non ne ha ancora presentato nemmeno uno e si è limitato ad apporre la propria firma alle proposte dei colleghi: è il caso di sei senatori e ben 26 deputati, fra i quali anche nomi noti come l’ex capogruppo Alessio Villarosa, il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio o Paolo Bernini, l’onorevole divenuto noto per la convinzione che gli Usa impiantino microchip sotto pelle per controllare i loro concittadini.

Quanto agli argomenti trattati, i temi mostrano la natura trasversale del M5S: sul gradino più alto c’è infatti quello dei diritti (come il Pd), seguito da salute (prioritario per Forza Italia, Ncd e Scelta civica) e ordinamento dello Stato. Il lavoro, centrale per Sel e Lega, è invece al quarto posto.

SOLO E PURO
Ligio a un identitarismo quasi assoluto, il M5S ha evitato di sostenere proposte degli altri partiti: è accaduto finora solo 88 volte, contro le 162 di Forza Italia e le 154 del Pd. Solo i leghisti, che hanno cofirmato 53 progetti altrui, si sono mostrati più riluttanti. Eppure, quando lo hanno fatto, i grillini hanno per lo più appoggiato progetti di legge del Partito democratico (in 60 casi).

Una questione che rimanda a un punto centrale del M5S: la volontà di non mischiarsi, nella convinzione che dal “contatto” e dal compromesso possa derivare esclusivamente una degradazione. Ma il timore di sporcarsi ha condotto spesso a uno splendido isolamento il M5S, rimasto puro ma senza aver ottenuto nulla. Una linea oggi messa in discussione dalla partecipazione al tavolo delle riforme ma già anticipato mesi fa da un cambio di rotta in Parlamento. A partire dal decreto Salva Pa (ottobre 2013) i grillini hanno infatti iniziato a barattare l’ostruzionismo con l’approvazione di alcuni emendamenti qualificanti, riuscendo a portare a casa talvolta risultati significativi.

PIATTO RICCO?
Fra i principali risultati che il M5S può rivendicare va annoverato il blocco delle cartelle esattoriali per le aziende in credito con lo Stato, la possibilità di recedere dagli affitti d’oro, l’otto per mille all’edilizia scolastica (oggetto di una dura polemica verso Fabio Fazio), i tagli alle consulenze nella Pubblica amministrazione, il divieto di introdurre nuove tipologie di giochi d’azzardo. Oltre al contributo alla legge sui reati ambientali, nata come fusione di tre proposte (Pd, Sel e del M5S Salvatore Micillo).

A guardare i numeri, il raccolto non pare tuttavia così abbondante: pur potendo contare su circa 150 parlamentari, il Movimento finora ha portato a casa 266 emendamenti ai 45 decreti convertiti dalle Camere. E su 12 provvedimenti (come i due sulle carceri o quello sulla vigilanza di Bankitalia) non è riuscito a far approvare neppure una correzione. A dimostrazione di una grande potenzialità finora espressa solo in parte, su cui spesso pesa proprio la volontà di non cercare sponda negli altri partiti: in alcuni casi ad affossare le modifiche proposte in commissione è stato il rifiuto di sostenere quelle altrui in cambio dell’appoggio alle proprie.

Eppure - indipendentemente dagli emendamenti accolti - questo non ha impedito ai Cinque stelle di agire pragmaticamente: 11 decreti hanno ricevuto il loro voto favorevole al Senato (5 sono del governo Renzi), 8 alla Camera e in 7 casi si sono astenuti. A conferma di un giudizio di merito che smentisce in parte il luogo comune sulle barricate a prescindere. Ulteriore sorpresa: i grillini, dipinti come euroscettici, hanno votato a favore dei provvedimenti che riguardavano la Ue, come la legge di delegazione europea e la legge comunitaria.

SOFT POWER
Il bilancio va però rimpinguato da quei provvedimenti in cui i numeri del M5S si sono rivelati determinanti, come la decadenza di Silvio Berlusconi o la depenalizzazione della Bossi-Fini, resa possibile da un emendamento dei senatori Maurizio Buccarella e Andrea Cioffi, frettolosamente scomunicati da Grillo e Casaleggio per timore di perdere consensi.

Ai Cinque stelle va anche riconosciuto il merito di aver sfidato interessi consolidati e posto all’attenzione pubblica temi come la presenza dei lobbisti in Parlamento o gli affitti d’oro di Camera e Senato. In altri casi ancora, si sono rifiutati di seguire il “così fan tutti” dei partiti, come nel caso delle regalie della legge mancia. Fino 5,8 milioni raccolti finora per il fondo destinato alle pmi decurtandosi lo stipendio: una goccia, certo, ma comunque un segnale di non poco conto dal punto di vista simbolico.

Un soft power che a ben vedere rappresenta una delle forze principali del M5S: quella di spingere gli altri partiti e il sistema politico a rincorrere e rinnovarsi per non morire (salvo arrancare quando, incalzato sulle proposte, è costretto alla mediazione). D’altronde lo stesso premier rottamatore è in parte figlio di questa temperie. E se non fosse emerso il ciclone Grillo, forse Matteo Renzi farebbe ancora il sindaco di Firenze.