Sulla legge elettorale è scontro nel partito. E il premier deve fronteggiare non solo l'ex segretario ma il professore che, dopo un periodo nell'ombra, ora è capofila delle battaglie della minoranza dem sulla quota di preferenze da fissare 

Pd: da Bersani a Gotor, Renzi e la carica dei nemici 'preferiti'

Ogni premier ha un nemico del cuore, nel proprio schieramento, e adesso Matteo Renzi – dopo averne disdegnati altri, apparentemente più adatti al ruolo- ha designato il proprio: Miguel Gotor, classe ’71, docente di storia moderna a Torino, senatore alla prima legislatura, già ideologo del bersanismo galoppante che fu. Oggi Gotor, dopo un lungo periodo in penombra, è capofila della battaglia della minoranza dem sulla quota di preferenze da fissare nell’Italicum e a taluni fa sognare il crollo del castello che regge il governo (“se la minoranza tiene le prossime 48 ore, salta la legge e salta pure Renzi”, è l’ipotesi sfrenata). “Ecco il mio nemico preferito”, l’ha apostrofato comunque Matteo Renzi, giungendo alla riunione del gruppo dei suoi senatori alla vigilia della battaglia in Aula. Piacioneria? Antipatia? Di certo Gotor, nel replicargli, ha utilizzato ironia non sufficiente a celare il proprio involontario lapsus: “Il nemico? Ma io vorrei essere il preferito!”, ha risposto infatti (prima di dilungarsi in un distinguo tra il concetto di “nemico” e quello di “avversario”).

[[ge:rep-locali:espresso:285513288]]Il preferito, già. Proprio così lo considerano nelle retrovie (neorenziane, soprattutto) del Pd: Gotor, lo storico in ascesa che Pier Luigi Bersani elevò da signor nessuno della politica a capolista blindato in Umbria, mettendogli addirittura in mano la propria campagna elettorale. All’epoca, era il massimo della rottamazione che un segretario Pd potesse esprimere, e in effetti Bersani l’espresse: anche con quel quarantenne, esuberante ma preparato, genialoide autore di un fortunato libro su Aldo Moro (di solito si occupava di eretici, apostati e streghe del Cinquecento), e poi coautore della sua biografia. Gotor del resto stava in quel brodo di potere con la scioltezza di chi a fare la classe dirigente è abituato sin da ragazzo: passione politica precoce, dentro il liceo classico Virgilio e fuori nella Fgci, amici di una certa romanità (Giulio Napolitano figlio di Giorgio, Eva Ingrao figlia di Pietro), Trastevere come luogo culto di uno che aveva casa sulla Portuense ai “confini con la periferia”, ottimi studi e grandi feste, la Normale di Pisa mancata per un soffio, le estati passate a studiare a Lenola, buen retiro ingraiano. Solo uno cresciuto così, avrebbe potuto farsi fotografare mezzo steso per terra, subito prima del faccia a faccia finale su Rai1 tra Renzi e Bersani nelle primarie 2012, praticamente ai piedi del proprio mentore politico, senza l’ombra di un’ansia e anzi naturalmente ridanciano. Solo uno cresciuto così, avrebbe poi potuto spiegare: “Ero steso per stare vicino alla presa elettrica cui era attaccato il mio telefonino”.


[[ge:rep-locali:espresso:285513287]]Oggi, la miglior cartuccia di quello che poi fu un disastro politico, il mancato ministro della Cultura del governo Bersani, si ritrova al compimento del cerchio: oppositore di Renzi in Parlamento, anzi addirittura capofila degli oppositori, una trentina. Con in mano la minaccia di far saltare tutto, proprio a pochi giorni dal voto per il Quirinale, ringalluzzendo lo scontro finale nel Pd alla faccia di quella pacificazione tanto predicata prima dell’arrivo di Renzi. E meno male che Gotor solo dieci mesi fa si preoccupava: “Mi dispiacerebbe se la nostra battaglia venisse letta come una lotta di minoranza, bersaniani contro renziani”. Ecco, gli dispiaceva. Stavolta invece tocca a lui, come un Fassina, un Civati, un Mineo, fare la conta dei senatori e urlare il suo: “Senza modifiche non lo votiamo”.


Come gli altri eretici, in fondo: solo, nel momento più denso della legislatura. Posizione, questa, cui Gotor si è avvicinato a passi felpati, con la cautela di uno che la riscossa se la costruisce passo passo. In crescendo. Prima, qualche superabile riserva sulla riforma del Senato (“Non sarà semplicissimo far passare la riforma, ma dobbiamo farcela assolutamente”, diceva prima dell’estate), poi sincere proteste in dicembre alla delega sul jobs act (“La riforma del lavoro è tremontismo di ritorno”), infine l’attacco sull’Italicum, sferrato in questi giorni. Va detto che il senatore dem da sempre segnala le preferenze come un punto dirimente della nuova legge elettorale, e ripete che, in assenza di queste, la legge non la vota. Però bisogna pure aggiungere che ora, avendo Renzi in parte introdotto le preferenze, Gotor ha virato la faccenda in una parola d’ordine che, diciamo, non è propriamente fatta per le masse: la cosiddetta battaglia per i due terzi.


In effetti, il professore che ha definito la propria entrata in politica come “l’uscita dalla caverna di Platone”, adesso pare essere diventato un’ombra pure lui – come quelle che vedeva da dentro il suo antro di studioso. Non si sogna infatti di prendere posizioni estreme, fare battaglie di bandiera come sarebbe quella di voler introdurre le preferenza tout court: si contenta, Gotor, che siano capovolte le percentuali attualmente previste nell’Italicum, arrivando a una quota di nominati di circa il 30 per cento e lasciando il restante 60 alle preferenze. Qualcosa su cui il premier non pare disposto a cedere. A prima vista, non si direbbe la battaglia della vita. Epperò chissà, almeno della legislatura potrebbe diventarlo.

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