Morani, Moretti, Picierno e Bonafè nel Pd, Capezzone e Minzolini a destra, gli ex 5 stelle Currò e Rizzetto. E poi ancora tanti altri. C'è stato un momento in cui il dibattito politico ruotava solo intorno a loro. E adesso sembrano scomparsi

Un Parlamento di meteore. Grandi o piccole come granelli di sabbia. Veloci come bolidi, oppure più lente: visibili giusto per il tempo del loro incendiarsi, dopo l’impatto con la notorietà o con il leader di turno, poi basta. Alcune magari torneranno a illuminare le prime pagine, chissà. Dipende.

Sta di fatto che mai come in questi anni, il fenomeno dello sciame di meteore è massiccio. Sarà anche colpa di un Parlamento sbilenco e inedito: nel quale il Pd è quello selezionato da Bersani, ma governa con Renzi; dove il centrodestra è entrato unito, per poi dissolversi nei tanti rivoli della decadenza berlusconiana; o i Cinque stelle, naive delle Camere, hanno aperto la scatoletta di tonno della loro prima selezione sul campo.

Nell’insieme, comunque, non pochi. Come in una specie di Spoon River della rilevanza, giusto per cominciare dal Pd ci si può chiedere che fine abbia fatto una come Alessia Morani. Iniziale notorietà per un tatuaggio sul piede, poi responsabile giustizia del Pd, tanta tv e qualche gaffe, infine l’approdo alla vicepresidenza del gruppo alla Camera e la sostanziale sparizione. Una parabola terrificante, quasi brutale.

E Simona Bonafè? Lanciata in orbita per le europee, agguantò un record di preferenze: oltre 288 mila, terza arrivata, prima tra le donne. Poi basta: come se non ci fosse. Eppure, era una delle fedelissime di Renzi, se la batteva con la Boschi e ne usciva persino meglio di lei. Sparita pure Pina Picierno, la terzina di sfondamento che esibiva i propri scontrini in tv, pur di dimostrare che gli ottanta euro di Renzi avrebbero cambiato la vita agli italiani. Alessandra Moretti? La sua scia luminosa è stata più lunga: prima con Bersani, responsabile della comunicazione poi renziana in lizza alle europee (230 mila preferenze, arrivò quarta) quindi in corsa per la Regione Veneto. Incarico per il quale ha mollato l’europarlamento. Dopo il flop contro Zaia, quasi nulla: fa la capogruppo dem in regione, dopo aver auspicato un profonda analisi nel partito sulle ragioni della sconfitta, e aver chiarito che un po’ è dipeso anche da look castigato da ferroviera.

C’è poi la massa sempre crescente dei cosiddetti dissidenti. Si illuminano più forte via via che si avvicinano all’annuncio di una scissione: poi si scindono (o decidono di non scindersi) ed entrano nell’emisfero nero. Che fine ha fatto Roberto Speranza? La grande partita del rinnovamento nella continuità, nel Pd, pareva potersi reggere sull’aria da ragazzino dell’uomo scelto da Bersani per fare il capogruppo alla Camera. Invece, poi, ci si è messa di mezzo la battaglia sull’Italicum: all’annuncio delle sue dimissioni di protesta, Renzi invece di aprire il “dibbbattito”, ha alzato le spalle ed è andato oltre.

Adesso, come certi grandi amici che si son persi di vista, ci si accorge che Speranza non è più tanto in giro solo quando capita di incrociarlo. Non poi tanto dissimile la parabola di Pippo Civati. Grande promessa dell’anti-Renzismo, da quando non sta nello stesso partito del suo antagonista filosofico, ha perso motivazione, si è come dissolto. Ma non è sparito. Certo, perché poi non tutte le meteore si dissolvono: alcune arrivano a terra, salvo diventare invisibili nel tratto terminale del percorso. E’ il cosiddetto “volo buio”. Una categoria cui si può dire appartenga Miguel Gotor: dopo sei mesi passati a parlare di derive autocratiche, è sparito. Sta ancora ben là, pronto a rispuntare, chissà quando.

In Forza Italia e dintorni, per non entrare nei casi meteoritici delle giovani promesse che paiono già bruciate prima di cominciare (vedasi Silvia Sardone e i fratelli Zappacosta), si hanno pure casi di “volo buio”. Dieci mesi fa, in piena epoca di elezioni quirinalizie, impazzava il duo Raffaele Fitto e Daniele Capezzone. Sembravano i padroni prossimi venturi del centrodestra. E invece si sono scissi e hanno smesso di diventare determinanti.

Spariti, fino al prossimo giro almeno. E che fine ha fatto Augusto Minzolini? L’ex direttorissimo del Tg1 dettava la linea nel partito di Berlusconi: poi si è fatto via via sempre più dissidente, fino a cadere nell’ombra. Maleficio oscuro sembra quello che ha avvolto Mario Mauro. Già possibile delfino di Berlusconi, poi montiano, quindi saggio di Napolitano e ministro con Letta, infine perno del Parlamento: fu estromesso dalla commissione Affari costituzionali, dopo che il suo voto era stato determinante per far passare l’ordine del giorno di Calderoli sulla riforma del Senato. Parlò di “purghe renziane”, poi finì a Gal. Le ultime notizie, a cercarle, lo danno partecipante al cosiddetto “gruppo di Rovereto”, insieme con Antonio Fazio, Raffaele Bonanni e Mario Tassone.

Perché poi fino a poco tempo fa, diciamolo, era più semplice. Se ti eri conquistato la tua fama, che fossi un Razzi o al contrario un Follini, poi nessuno ti toglieva il ruolo, almeno fino alla fine della legislatura. Finché c’era la poltrona, c’era lo spazio. Adesso, al contrario, la poltrona resta: è semmai la sua incidenza a sparire. E soprattutto, la faccenda si brucia in tempi rapidissimi, fulminei. Meteoritici, appunto.

La cosa prende un suo giro particolare tra i grillini. Qui il caso è un po’ diverso: entrati con lo slogan dell’ uno vale uno, i Cinque stelle hanno attraversato il processo di selezione della classe dirigente quando erano già in Parlamento. Per questa via, si sono perse le tracce ad esempio di Vito Crimi, uno dei primi volti pentastellati quando insieme con Roberta Lombardi si incaricò da capogruppo delle estenuanti consultazioni di Bersani.

Pareva lui quello con più cartucce, e invece. Ma ci sono anche casi di promesse mancate: a inizio legislatura i bookmaker puntavano parecchio su Marta Grande da Civitavecchia, in predicato addirittura per diventare presidente della Camera, prima di svanire nella quotidianità parlamentare. Ci sono quindi i casi dei mezzi leader, la cui incidenza va in combinato disposto con la critica al capo: per mesi pareva che il futuro dei Cinque stelle dipendessero dalle mosse di Tommaso Currò o di Walter Rizzetto. Poi Currò è entrato nel Pd, Grillo ha fatto il direttorio con Di Maio e Di Battista, e molti saluti.