Dopo gli annunci della viglia, i dissidenti dem tornano sui loro passi e, a differenza di Berlusconi, votano il testo figlio del patto del Nazareno. Bersani sposta l’asticella: «Il punto ora è l’Italicum». Pessimista Civati, che non vota: «Dopo il solito polverone, alla fine diranno sì anche a quello»

L'ok alla riforma del Senato è arrivato senza troppi patemi: 357 sì, 125 no e 7 astenuti. Ma prima ancora che alla Camera cominciassero le dichiarazioni di voto, Matteo Renzi aveva già incassato il sì della minoranza Pd alla "sua" riforma costituzionale.

Pier Luigi Bersani, Cesare Damiano, anche Gianni Cuperlo che pure si mostrava battagliero, nelle ultime ore: tutti, alla fine, spingono il tasto verde. «Un Senato non elettivo» sono le parole con cui Bersani giustifica la scelta, «è una cosa opinabile, che per me andrebbe corretta, ma è una cosa che esiste al mondo. Ciò che non esiste al mondo è il combinato disposto con questa legge elettorale: noi avremmo un'unica camera politica, con la maggioranza dei deputati nominati e, per i partiti che non vincono, il 100 per cento dei deputati nominati. Una cosa così non è votabile».
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Sono così rimandate, dunque, le denunce dei giorni scorsi sul «combinato disposto». A chi si stupisce, la giornalista Chiara Geloni, ex direttrice di Youdem, molto vicina a Bersani, fa notare che anche nella nota intervista rilasciata ad Avvenire l’ex segretario già spostava la battaglia sulla legge elettorale, accettando quindi che il testo della riforma costituzionale fosse da considerarsi «blindato». «L’Italicum va cambiato», diceva non casualmente Bersani, «perché produce una Camera di nominati. Non sta in piedi. Se è deciso che la riforma della Costituzione non si può modificare, io non accetterò mai di votare questa legge elettorale senza modifiche».

Si realizza così il desiderio espresso dal vicesegretario del partito democratico, Lorenzo Guerini, che da giorni auspica il consueto «largo consenso» e la responsabiltà della minoranza interna. Raccoglie i frutti Matteo Orfini, che spiega così il risultato: «Lavoriamo per raccogliere il consenso più ampio in tutto il Parlamento, compresa la minoranza del Partito democratico».
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Pochissimi sono i pasdaran. Stefano Fassina vota no. Ma è un gesto quasi solitario. «I voti in dissenso dal gruppo saranno meno dei 5-6 di cui si era parlato ieri» prevedeva poco prima del voto, dimostrando anche un certo ottimismo. A tenere compagnia a Stefano Fassina (se non si considerano le opposizioni formali, quella di Sel, di Forza Italia e della Lega) ci sono Pippo Civati e Luca Pastorino, che non votano proprio, e Francesco Boccia, già lettiano, presidente della commissione bilancio della Camera. Fuori dall’aula ci sono anche i 5 stelle.

Degna di nota è la polemica che Civati apre con un post sul suo suo blog: «L’unica cosa che non si capisce è perché ogni volta si alzi, nelle settimane precedenti a ogni scadenza, un polverone che poi, alla fine, si posa sul voto immancabilmente favorevole» dice dei suoi colleghi di partito. «La cosiddetta minoranza non fa altro che alzare palloni alla maggioranza e al premier che li schiaccia. La battaglia da affrontare è sempre la “prossima”: così è stato sul Jobs Act, così nei vari passaggi delle riforme» continua Civati che azzarda una previsone: «Così sarà sull’Italicum, ma poi magari si vota a favore anche su quello».