Un docufilm in onda su History Channel ricostruisce con testimonianze inedite i metodi della squadra di Di Pietro. E ripropone le sottovalutazioni del leader socialista, come nella politica di oggi
di Gianluca Di Feo
14 aprile 2015
Ormai su Mani Pulite si sta ritirando fuori di tutto, intrecciando fiction e cronaca, in un quadro forse un po' confuso che ha un solo punto fermo: oggi come allora, la maggioranza degli italiani non è più disposta a tollerare la corruzione.
C'è un documentario che forse può aiutare a trovare qualche punto fermo, grazie ad alcune testimonianze e documenti d'epoca: “1992 attacco al potere”, che andrà in onda questa sera (14 aprile) e il 21 aprile alle 23 su History Channel.
Si apre con Luca Magni, l'imprenditore che consegnò la bustarella a Mario Chiesa che ha fatto crollare un intero sistema politico. Ricostruisce i fatti minuto per minuto. Dice che i magistrati «era come se avessero la macchina ma non sapessero farla partire, io sono stato la chiave che ha fatto partire tutto». Negli occhi di Magni non c'è più il senso di sfida che mostrava ventitre anni fa: non ha l'aria dell'eroe, sembra un uomo distrutto, piange. [[ge:rep-locali:espresso:285518351]]
Il pregio del filmato è proprio quello di offrire prospettive diverse, molto personali. Ci sono i racconti di tutti gli uomini chiave della prima fase di Tangentopoli, i protagonisti rimasti nell'ombra che ricordano metodi e trucchi investigativi: il capitano dei carabinieri Roberto Zuliani e i due poliziotti Giancarlo Spadoni e Rocco Stragapede, veri factotum di Antonio Di Pietro. L'avanzata dell'indagine verso il cuore del potere viene narrata con ritmo e chiarezza.
Forse per questo tra le righe emerge il dilemma più importante di quella stagione, ossia il ruolo che ha avuto nella vita italiana Bettino Craxi. Viene riproposto un documento unico: l'intervista televisiva in cui il leader socialista dà del “mariuolo” a Chiesa. «Mi preoccupo di creare le condizioni perché il paese abbia un governo in grado di affrontare le condizioni difficili che abbiamo davanti e mi ritrovo un mariuolo che getta un'ombra su tutta l'immagine di un partito che a Milano in cinquant'anni non ha avuto un amministratore condannato per reati gravi contro la pubblica amministrazione». È un momento decisivo, che incrina il silenzio di Mario Chiesa: dopo tre mesi tutti gli amministratori socialisti milanesi e lombardi saranno sotto accusa. Quelle parole sono state un errore tattico, che ha determinato una sconfitta strategica. E nascevano dall'incapacità di Craxi nel fare i conti con la situazione. Lo conferma Paolo Pillitteri, suo cognato ed ex sindaco di Milano: «Conoscevo Di Pietro, aveva i classici modi del contadino furbo, io ero molto preoccupato ed avevo ragione. Glielo dicevamo a Bettino. Lui non ascoltava: “Non dovete preoccuparvi, è una cosa locale, si ferma lì”. Noi invece abbiamo capito subito che l'inchiesta vuole espandersi: l'arresto di Chiesa era stato un colpo di gong, lui lo sottovalutò».
Il primo maggio 1992 sono proprio gli avvisi di garanzia a Pillitteri e a Carlo Tognoli a rendere manifesta la portata dell'istruttoria. Con qualcosa altro che l'uomo forte del Psi non riesce a valutare: il meccanismo mediatico che si è innestato intorno ai magistrati di Milano, sulla spinta soprattutto delle reti Mediaset, cementando il consenso popolare verso i magistrati. «Un circo mediatico-giudiziario che non conoscevano», ammette Pillitteri «e creava il mito di Di Pietro. Il pool diventa un Olimpo che getta saette». Mentre invece le parole di Craxi non incutono più timore. Quando si rende conto della minaccia e cerca di giocare il suo poker, nei confronti di Di Pietro e degli altri partiti, non capisce che il tavolo è cambiato. I messaggi trasversali contro il magistrato, anche quelli che si riveleranno fondati, cadono nel nulla. Come accade all'avvertimento lanciato in Parlamento il 3 luglio, con un discorso che viene riproposto in “1992 attacco al potere”: «I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale.?Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro».
C'è una seconda parte dell'intervento di Craxi che – depurata dagli attacchi del momento – sembra mantenere un'attualità politica: l'appello al cambiamento delle regole prima che gli illeciti distruggano la credibilità di tutti i partiti. «Un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico, per quanto reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un’opera di risanamento efficace ma solo la disgregazione e l’avventura.?A questa situazione va ora posto un rimedio, anzi più di un rimedio. È innanzitutto necessaria una nuova legge che regoli il finanziamento dei partiti e che faccia tesoro dell’esperienza estremamente negativa di quella che l’ha preceduta».
Oggi le sovvenzioni pubbliche sono state abrogate e per questo il problema della natura dei contributi privati alla vita politica è diventato ancora più forte. Le indagini continuano negli ultimi mesi a evidenziare come in questo settore non ci siano né controlli efficaci, né trasparenza. Questo – come “l'Espresso” denuncia da mesi - riguarda soprattutto il canale lecito ma opaco delle fondazioni, usate da esponenti di tutti i partiti per raccogliere soldi. Nonostante accuse e sospetti siano crescenti, i segnali di riforma restano deboli. Il Parlamento non sembra deciso a prendere iniziative concrete per cambiare i meccanismi del finanziamento, con il rischio di sottovalutare la rapidità del cambiamento. E ripetere gli errori del 1992.