I portaborse: "Siamo sfruttati e umiliati" Intanto l’onorevole fa la cresta sul rimborso

Collaboratori costretti a pagare le bollette. Altri inquadrati come colf per pagare meno contributi. Malgrado i parlamentari ricevano oltre 3500 euro al mese per regolarizzarli. E adesso gli assistenti chiedono di modificare la normativa. Per una maggiore trasparenza nell’uso dei soldi pubblici

Marta tutte le mattine varca l’ingresso della Camera dei deputati. Consegna la sua carta d’identità e riceve il badge di “ospite”. In realtà sarebbe una collaboratrice parlamentare a tutti gli effetti. Una portaborse, insomma. Per l’onorevole con cui lavora scrive discorsi, comunicati e prepara le interrogazioni. Ma lui non ne ha voluto sapere: troppi contributi da pagare. E così Marta si è dovuta piegare e ha firmato un contratto da colf, che prevede invece oneri fiscali e previdenziali bassissimi. Collaboratrice sì, ma familiare. E per andare al lavoro, nel tempio della democrazia, deve sottoporsi quotidianamente all’umiliazione della finta visitatrice accreditata come ospite.

Nel luogo in cui si fanno le leggi Marta (il nome è di fantasia) è in buona compagnia: sia alla Camera che al Senato sono diverse le ragazze, tutte laureate come lei, formalmente assunte con un contratto da donna delle pulizie. Eppure i loro datori di lavoro ricevono in busta paga un apposito “rimborso delle spese per l’esercizio del mandato parlamentare” (quindi esentasse) con cui pagare i collaboratori, oltre che gestire l’ufficio e affidare consulenze e ricerche. Non si tratta di spiccioli: 3.690 euro al mese per i deputati e addirittura 4.190 per un senatore.

Moltiplicando per il totale degli eletti, fanno 44 milioni l’anno. E il bello è che per avere diritto a queste somme basta rendicontare metà delle spese, il resto viene erogato forfettariamente. Insomma, come nel caso del finanziamento pubblico ai partiti  formalmente abolito ma di fatto reintrodotto con un altro nome - si tratta di rimborsi di nome ma non di fatto. Ma proprio per questo l’onorevole con cui lavora Marta si comporta così: perché tutto quello che risparmia, se lo può mettere in tasca. Ed è grazie a questo perverso meccanismo che, nel tempio dove si fanno le leggi, ancora accade che i portaborse siano lavoratori in nero, inquadrati con finti contratti a progetto o pagati con stipendi da fame.

Nel 2012 un’inchiesta dell’Espresso fece luce sul modo in cui venivano spesi questi soldi extra e  scoprì tanti “furbetti” che facevano la cresta su questi fondi. Oggi non molto sembra essere cambiato, come racconta Andrea (nome di fantasia), che alla soglia dei 40 anni lavora per un parlamentare dell’opposizione a 600 euro al mese: «Pago regolarmente le sue bollette ma mi è anche capitato di andare a ritirare pacchi natalizi che gli avevano spedito. E non è nemmeno il peggio che possa capitare. Un collega è costretto a fare la spesa per la deputata che lo ha assunto e un altro ha perfino presentato delle pratiche di invalidità, come se fosse un’agenzia di servizi».

Adesso qualcosa forse si muove. Stanchi di questa situazione, i collaboratori parlamentari si sono riuniti in associazione ( Aicp, un’ottantina gli aderenti) e hanno deciso di uscire allo scoperto, chiedendo espressamente una modifica della normativa. Così da tutelare il loro lavoro, spesso indispensabile all’attività legislativa degli onorevoli, e far gestire in maniera trasparente i soldi pubblici.

«Non abbiamo modo neppure di sapere quanti siamo esattamente» spiega Francesca Petrini, portavoce dell’Aicp al Senato: «Per far rilasciare ai loro assistenti il badge per l’accesso a Montecitorio o Palazzo Madama, i parlamentari devono depositare i contratti. Ma gli uffici di Questura, formalmente per motivi di privacy, non ci hanno mai voluto dare il numero preciso». Il modello vagheggiato è quello del Parlamento europeo: un contratto con maternità, ferie, contributi previdenziali pagati e livelli retributivi rispettosi delle mansioni svolte. Senza più dover dipendere dalla magnanimità del politico di turno né doversi ridurre a fare i collaboratori familiari, più che parlamentari.

La soluzione sarebbe semplice: l’onorevole indica il collaboratore da contrattualizzare ma a pagare sono direttamente Camera e Senato. Risultato: niente più cresta né abusi. Soprattutto, senza spendere un euro in più di quanto avviene nella giungla attuale perché basterebbe prevedere come soglia massima lorda quella già attualmente erogata sotto forma di rimborso.

Ci vorrebbe anche poco, fra l’altro, in virtù dell’autonomia che i due rami del Parlamento rivendicano ogni vota che si tratta di toccare qualche privilegio: una delibera degli Uffici di presidenza, come accaduto con la revoca dei vitalizi ai condannati. Del resto l’Italia, al contrario di Francia e Regno Unito, è l’unico Paese dove vige ancora il far west: per gli assistenti non è previsto alcun nessun riconoscimento giuridico, nessuna voce di spesa specifica o vincolata, controlli solo formali e in particolar modo zero trasparenza.

Facile immaginare, però, che le resistenze sono fortissime, perché quei soldi extra fanno comodo a tutti: a chi se li mette in tasca così come a chi li versa ai partiti di appartenenza, a corto di risorse col taglio dei contributi pubblici (che finiranno definitivamente nel 2017). Non a caso il Parlamento sta facendo di tutto per non muovere un dito. Nel 2012 a Montecitorio fu approvata  una proposta di legge  che cercava di mettere ordine, ma a causa delle elezioni anticipate il provvedimento non è stato ratificato dal Senato.

Nel 2013, con la nuova legislatura, si è deciso di seguire la strada degli ordini del giorno in occasione dell’approvazione dei bilanci. Ne sono stati approvati addirittura 4 per “disciplinare tempestivamente” la materia ma sono rimasti tutti lettera morta. Stessa scena l’estate scorsa al Senato, dove è stato approvato un generico odg della maggioranza per “valutare ulteriori misure idonee a disciplinare in modo trasparente il rapporto coi collaboratori”. Ma la valutazione evidentemente è ancora in corso…    

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