Sulla riforma costituzionale va in scena un grande classico: il conflitto tra il premier e il presidente di un ramo del Parlamento. Stavolta però a capo del Senato non c'è un leader politico, e infatti a Palazzo Madama circola la battuta: "Dopo i due Papi, abbiamo i due presidenti". Come finirà?

La conferenza dei capigruppo la convoco io (non Renzi). Sulla ammissibilità degli emendamenti alla riforma del Senato decido io (non Boschi, o Finocchiaro). Sia pur con circonlocuzioni appena più ampie e prudenti, ma di identica sostanza, il Presidente del Senato Pietro Grasso si è da ultimo rintanato in un ruolo che è un grande classico delle massime istituzioni parlamentari: la difesa dei propri poteri e prerogative, che finisce per essere il modo col quale – spesso volenti, talvolta nolenti – i presidenti di Camera e Senato entrano nel gioco politico. Gianfranco Fini ne fece il leit motiv dei suoi cinque anni a Montecitorio, Fausto Bertinotti pure, Pier Ferdinando Casini anche: ma si trattava di leader di partito, era un po’ diverso.

Il turno di Grasso - entrato in Parlamento in quota società civile dem, eletto presidente nel nome dell’inclusione dei grillini in un governo che non si è fatto mai - raggiunge il suo apice adesso, a suon di regolamenti, emendamenti e precedenti. Esplode nel vivo della guerra sulla riforma costituzionale, battaglia che pare ormai più che altro lo strumento attraverso il quale i tre quarti del Parlamento stanno variamente cercando disegnarsi un futuro accettabile.

Ciascuno fa dunque il suo gioco, ciascuno si attrezza per il proprio avvenire (anche elettorale), e pure Grasso pianta i suoi paletti per evitare di venire travolto. Per chiarire quale sia il clima che si respira a Palazzo Madama, infatti, basti dire che il leit motiv di ieri nei corridoi era: “Abbiamo già visto i due Papi, adesso ci sono anche i due presidenti del Senato”. Non si sa se l’affermazione sia di matrice renziana, e dunque un auspicio; oppure (più probabile) di matrice non renziana, e dunque una polemica.

Di certo la frase fotografa il momento: ieri per un verso Renzi ha fatto trapelare che si sarebbe tenuta una conferenza dei capigruppo per anticipare l’approdo in Aula del ddl Boschi, quando ancora Grasso non l’aveva convocata, e nessuno l’aveva formalmente richiesta; e per un altro verso, la presidente della prima commissione Anna Finocchiaro si è precipitata – un attimo prima che fosse troppo tardi - a dichiarare inammissibili quasi tutti gli emendamenti all’articolo 2 del ddl Boschi (quello che introduce il principio di non elettività dei senatori), creando così un precedente del quale Grasso dovrà tenere conto in un modo o nell’altro, nel momento in cui deciderà a sua volta, per l’Aula, se ammettere o no gli emendamenti all’articolo 2


Sia Finocchiaro, che soprattutto Renzi, hanno insomma tirato la giacchetta, come usava dire una volta, al presidente del Senato. Il quale, teatralizzando pure lui l’ira (così come tutti gli altri attori dello scontro sulla riforma), si è affrettato a lasciare anzitempo un convegno a Montecitorio su Arrigo Boldrini argomentando una “situazione, vi assicuro, di emergenza”. L’emergenza era rimettere i puntini sulle “i” delle proprie competenze. Un’emergenza tendenzialmente soggettiva: la sua, ma legittima.


Ha così raggiunto il suo trionfo il mancato feeling con Renzi e renzismo che del resto c’è sempre stato. I toni si sono fatti più guerreschi, ma il crescendo si era già visto a fine agosto, quando da un lato Grasso aveva chiarito, scrivendolo pure su Facebook, di non aver preso alcuna decisione sulla emendabilità della legge Boschi (“c’è ancora tempo prima che sia chiamato ad esprimere le mie decisioni”), dall’altro alla Festa dell’Unità aveva buttato là la sua linea, affogandola in dose massicce di buon senso: “Finora la maggioranza c’è stata”, ma “potrebbe non esserci se tutti mantengono le posizioni avanzate con gli emendamenti sull’articolo 2”, per cui “l’invito è a trovare una soluzione politica a quella che potrebbe essere una impasse”.

Era come dire a Renzi, strizzando appena l’occhio alla minoranza dem: mettetevi d’accordo tra di voi, prima che sia io a decidere. Risolvete il dissidio politico, prima che la rissa diventi tecnica e si debba andare in Aula facendosi il segno della croce prima di ogni votazione. Non che l’invito a mediare abbia in sé granché ammorbidito le posizioni del premier: da quelle parti l’atteggiamento è stato da un lato spingere in ogni modo la tesi dell’immodificabilità della legge, e dall’altro tentare di far scoprire le carte al presidente del Senato, che invece ha sempre ribadito di non voler fornire anteprime delle sue decisioni tecniche.

Che, politicamente, Grasso abbia perplessità sulla riforma del Senato non è di certo un segreto. Sempre in agosto, le ha attribuito l’aggettivo “pasticciata”, precisando di riportare l’opinione di “alcuni costituzionalisti”, e ha comunque chiarito che “qualche piccola modifica serve”. D’altra parte la sua sintonia con la minoranza Pd è scoccata proprio a queste latitudini, a partire da quella intervista in cui - sposando la stessa tesi di Bersani – il presidente disse che il Senato non elettivo in “combinato” con l’Italicum “mette a rischio la democrazia”. Il ddl Boschi aveva appena visto la luce, Renzi se la legò al dito, ed è vero che da allora Grasso si è ritirato prudentemente dietro il ruolo istituzionale.

Evitando le grosse polemiche e consegnando ai resoconti quell’ “uno a uno” che ha segnato le sue decisioni più importanti: il sì al voto palese chiesto dai Cinque stelle quando nel novembre 2013 si trattò di votare la decadenza di Berlusconi (polemiche dal centrodestra); il sì al voto segreto chiesto dalle opposizioni quando nell’estate 2014 si trattò di votare alcuni degli snodi principali della riforma del Senato (polemiche dal Pd). Insomma, sia pur con qualche gaffe e qualche tentennamento, fino ad oggi Grasso è riuscito a scontentare tutti gli schieramenti, mettendo così al riparo l’imparzialità del proprio ruolo. Ma ora che sulla riforma del Senato si gioca in sineddoche l’esito di un governo e forse di una legislatura, la battaglia gli si è fatta così vicina che evitare di essere allocato una volta per tutte tra i “servi del governo” o tra i “gufi” gli sarà davvero difficile. Di certo lo sa, forse in cuor suo ha già scelto.