Gli ex parlamentari possono andare in pensione fino a sei anni prima dei comuni lavoratori. Adesso i Cinque stelle chiedono di modificare le regole. Riformate nel 2012. Ma rimaste comunque molto vantaggiose per gli onorevoli
Per andare in pensione un comune lavoratore deve aver compiuto almeno 66 anni. Se però è un ex onorevole, può godere di uno “sconto” e iniziare a ricevere il
vitalizio già a 65. Se poi ha più di una legislatura intera alle spalle, le condizioni sono ancora più favorevoli: in virtù del servigio reso alla Nazione può infatti anticipare ulteriormente la riscossione.
Cosicché un politico che ha trascorso 10 anni in Parlamento
può percepire la “pensione” ad appena 60 anni. Ovvero sei anni prima della stragrande maggioranza degli italiani, ai quali peraltro viene richiesto almeno un ventennio di contributi (mentre per maturare il vitalizio bastano appena cinque anni).
Una macroscopica disparità, che ha spinto i parlamentari del
Movimento cinque stelle che siedono negli Uffici di presidenza di Camera e Senato a decidere di scrivere a Laura Boldrini e Piero Grasso. Per proporre una modifica al Regolamento:
abrogare il secondo comma dell’articolo 2, in base al quale “per ogni anno di mandato parlamentare oltre il quinto anno, l'età richiesta per il conseguimento del diritto a pensione è diminuita di un anno, con il limite all'età di 60 anni”. Una modifica semplice semplice, che se venisse approvata consentirebbe di risparmiare qualche milione l’anno e avvicinare, se non altro anagraficamente, il Palazzo ai comuni mortali.
«Vogliamo che alla prima riunione dopo la pausa estiva la proposta venga messa all’ordine del giorno» anticipa all’Espresso la deputata
Claudia Mannino. Facile a dirsi, assai meno a farsi. Per passare, la proposta dovrebbe infatti avere la maggioranza dell’Ufficio di presidenza, che conta 21 membri alla Camera e 18 al Senato: «Non abbiamo ancora contattato gli altri partiti, lo faremo nei prossimi giorni. Spero di sbagliarmi, ma sinceramente non ho grandi aspettative che riusciremo nel nostro intento. Se sarà così, si assumeranno le loro responsabilità».
In realtà non è la prima volta che una forza politica prova a cancellare questo privilegio: la scorsa legislatura anche l’attuale presidente del
Copasir, il leghista
Giacomo Stucchi, aveva proposto in Ufficio di presidenza di introdurre l’inderogabilità dei 65 anni per la riscossione del vitalizio, ma la sua proposta era stata bocciata.
E dire che
fino al 2011 le condizioni erano ancora più vantaggiose delle attuali. A cominciare dalla possibilità di riscattare gli anni mancanti per maturare i requisiti minimi, oggi abolita. Ma non solo. Gli eletti prima del 2001 potevano incassare il vitalizio già a partire dai 50 anni, mentre per chi era entrato a Palazzo prima del 1996 i limiti non c’erano proprio. Come dimostra il caso del fortunato Giuseppe Gambale, entrato alla Camera a 28 anni nel 1992 con La Rete di Leoluca Orlando: uscito dal Parlamento nel 2006, ha subito iniziato a riscuotere il vitalizio. Ad appena 42 anni.
Un sistema tale da spingere nel 2012 Montecitorio, nel pieno dei sacrifici imposti al Paese dal governo Monti, a riformare il sistema. Introducendo, dopo mille resistenze, quel sistema contributivo che per i comuni cittadini era previsto fin dal 1995 con la riforma Dini. E così pure l’età minima per riscuotere la pensione fu portata da 50 a 60 anni. Nelle stesse settimane in cui la riforma targata Elsa Fornero obbligava gli italiani ad attendere fino a 66 anni.
Ci fu chi si salvò per poche settimane, come l’ex pornostar Ilona Staller, e chi vide per un soffio allontanarsi di un decennio l’assegno dorato, come l’ex ministro Giovanna Melandri. Ci furono perfino 35 ex deputati che presentarono ricorso contro le nuove norme: 17 della Lega, 5 di Forza Italia, 3 di Alleanza nazionale, 5 dell'Ulivo e uno a testa per Rifondazione comunista e Verdi. Sfortunatamente per loro, però, il Consiglio di giurisdizione della Camera respinse l’istanza.