È il più gradito del governo nei sondaggi. Ricuce con i dissidenti. Riunisce i sindaci, non solo del Pd, favorevoli al Sì. È l’interlocutore privilegiato del Quirinale. Così il ministro si prepara al dopo referendum. Da protagonista (Illustrazione di Duluoz)

Un ponte chiamato Graziano Delrio

In questi giorni, ha confidato agli amici, «sto vedendo quella fiction lì, come si chiama?, “House of Cards”. Tre anni fa ne parlavano tutti, ma a me sembrava una boiata». Tre anni fa, al momento del renzismo nascente e trionfante, quando atteggiarsi a epigoni toscani di Frank Underwood era un vezzo di moda a Palazzo Chigi. Oggi che non tira più, in tv e in politica, e che i metodi del politicante di Washington interpretato da Kevin Spacey non bastano per vincere, in Usa e in Italia, Graziano Delrio si concede la civetteria di visionarlo, come la testimonianza di una stagione già terminata, come il personaggio di Woody Allen Leonard Zelig che si tolse la soddisfazione di cominciare a leggere “Moby Dick” al momento della fine.

La conferma di un anticonformismo, l’anomalia di un personaggio che ha finora attraversato tutta la parabola di Matteo Renzi da protagonista, riuscendo nell’impresa quasi impossibile di condividerne senza riserve ogni passaggio e al tempo stesso di tenersi distante da arroganze, cinismi, gigli magici. Un singolare impasto di fedeltà e di indipendenza, di adesione incondizionata e di gelosa libertà di giudizio. Nella galassia renziana Delrio è qualcosa che si avvicina all’eresia massima: il riconoscimento di un carisma che non è diretta emanazione del Capo ma è interpretato in modo personale e originale.

Apprezzato: negli indici di gradimento Delrio è segnalato come uno dei ministri più affidabili del governo Renzi, insieme al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Prezioso, dunque, a quaranta giorni dal giudizio universale del 4 dicembre, con i sondaggi riservati che danno il no ancora in vantaggio di sei o addirittura otto punti sul sì, ora che per vincere il referendum non servono quelli che dividono ma quelli che uniscono, non quelli che mobilitano i tifosi ma quelli che sanno dialogare con un fronte più largo. Per il Sì vanno messi in ombra gli uomini che alzano il muro contro muro, ci vuole uno come lui, il ministro delle Infrastrutture. Delrio, l’uomo del Ponte: se non sullo stretto di Messina, certamente tra altre sponde. Con il Quirinale. Con il Vaticano. Con un pezzo di Pd. Con gli amministratori locali. Tra il governo Renzi e un pezzo di società italiana. Un ponte tra il voto del 4 dicembre e il giorno dopo, anche. Quando in ogni caso, che vincano i sì o i no al referendum, tutto sarà cambiato e tutto da rifare.
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Il ministro gira l’Italia in lungo e in largo. Da qualche settimana è entrato in campagna elettorale per il referendum, con il suo stile. Attraversa rapido la stazione Termini, scende da un treno o risale, magrissimo come un monaco medievale o una scattante ala da fascia vecchio stile, lui che aveva passato un provino per entrare nelle squadre giovanili del Milan. Entra e esce dal ministero di Porta Pia, il palazzo che il Duce definiva «orrendo casermone da cui sciama la travetteria dicasteriale», che fu il regno dei Nicolazzi e dei Prandini, dei Lunardi e dei Matteoli, scenario di scandali e di tangenti, nella Prima e nella Seconda Repubblica. Nella sua stanza al terzo piano c’è un tabellone su cui sono appuntati tracciati autostradali, stazioni, porti, stanziamenti, risorse, capitoli di spesa, investimenti, miliardi. È arrivato lì nella primavera del 2015, in bicicletta, dopo le dimissioni di Maurizio Lupi, con l’incarico di spezzare la continuità con la gestione precedente, la struttura di missione di Ercole Incalza, dominus del ministero sotto governi di ogni partito e colore, finito in guai giudiziari.

Sembrò, in quel momento, una promozione-rimozione. Perché Delrio arrivava da Palazzo Chigi, era stato a lungo l’uomo più vicino a Matteo Renzi, immancabilmente definito nei retroscena giornalistici il suo Gianni Letta, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio. E sulla rubrica del suo cellulare aveva segnato Renzi con il nome di Mosè. E invece qualcosa si era incrinato nel rapporto tra i due, politico e personale. Sempre più spesso, in quei mesi, capitava di incontrarlo in una trattoria a due passi dalla sede del governo, a pranzo, da solo. E arrivavano voci di uno scontro latente con l’altro sottosegretario, il toscanissimo Luca Lotti. E di un chiarimento finale con il premier. «Non mi posso più fidare di te», tagliò corto Matteo. «No, è il contrario: se credi a chi dice che tramo contro di te sono io che non mi posso più fidare di te», replicò Graziano. Seguirono mesi di incomunicabilità totale.

Eppure c’era Delrio, all’epoca sindaco di Reggio Emilia e presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni italiani, seduto in mezzo alla platea del palazzo della Gran Guardia di Verona il 13 settembre 2012, il giorno che l’allora giovane sindaco di Firenze aveva annunciato la sua sfida nazionale contro Pier Luigi Bersani. L’unico nome di peso, l’unico volto riconoscibile tra tanti anonimi. Il rapporto tra Renzi e Delrio era nato nell’Anci, durante le battaglie dei sindaci contro i governi di Roma che tagliavano i trasferimenti agli enti locali e stritolavano le casse comunali, il governo di Silvio Berlusconi ma anche quello tecnico presieduto da Mario Monti e sostenuto dal Pd.

Un gruppo ristretto destinato a scalare in tempi rapidi il partito e il governo: Renzi, Delrio, il direttore generale dell’Anci Angelo Rughetti, oggi sottosegretario alla Pubblica amministrazione, il sindaco di Lodi Lorenzo Guerini, ora vice-segretario del Pd, Roberto Reggi, sindaco di Piacenza e poi coordinatore della campagna di Renzi per le primarie 2012 e quindi sottosegretario all’Istruzione, oggi direttore dell’Agenzia del demanio. Il gruppo si riunì in un oscuro bar sotto il Campidoglio nell’estate 2012. E decise di sostenere la scalata di Renzi, l’assalto al cielo dei piccoli sindaci alla politica nazionale.

Il renzismo è nato da queste due radici: la Leopolda e l’Anci. I fiorentini, «i ragazzi fedeli», come li chiama un deputato amico di Delrio, e i sindaci. La Leopolda, simboleggiata da Lotti e dal ministro Maria Elena Boschi, sembra arrancare. Mentre in queste settimane il partito dei primi cittadini è tornato in campo, con l’obiettivo di trascinare il Sì alla vittoria. In estate Delrio e Rughetti hanno scritto un appello ai sindaci, invitandoli a schierarsi per la riforma costituzionale. Hanno risposto in 800, numero in salita, dovevano riunirsi tra una settimana a Roma, poi l’appuntamento è stato spostato a novembre per permettere a Renzi di intervenire. Fasce tricolori del Pd, eletti in liste civiche, ma anche sindaci centristi, un ex leghista come Flavio Tosi, tentato dall’adesione è anche il primo cittadino di Venezia Luigi Brugnaro, civico di centrodestra.

Qualcosa di più di una corrente del Pd: un fronte trasversale che arriva laddove il partito stenta o latita e i comitati del sì costituiti dalla Boschi faticano ad arrivare. C’era anche la lobby dei sindaci, del resto, nella riforma della Costituzione prima maniera. La bozza iniziale ricalcava l’idea di Delrio e dell’Anci: sostituire il vecchio Senato con un Senato delle autonomie, composto prevalentemente da sindaci. Nel testo finale, quello che sarà votato il 4 dicembre, resta poco di quella impostazione, a farla da padroni saranno i consiglieri regionali, nella composizione restano 21 sindaci in rappresentanza di ogni regione. Ma per Delrio e per i suoi è un segnale importante: «I sindaci sono già oggi diventanti governo nazionale. E la riforma certificherà il loro ruolo».

Sul piano elettorale potrebbe rivelarsi un apporto decisivo. Per questo, dopo mesi di freddezza, Renzi ha ricominciato a ricucire i rapporti con i compagni di strada della prima ora. Con Delrio il legame è tornato al punto di partenza: quotidiano e sincero. Rafforzato dalle drammatiche giornate del terremoto di Amatrice, vissute insieme minuto per minuto. Dopo una brillante apparizione televisiva il premier ha richiamato al telefono il deputato Matteo Richetti, emiliano e amico del ministro delle Infrastrutture: non si sentivano da più di un anno e mezzo, si sono visti a tu per tu a Palazzo Chigi e si sono chiariti. Risultato: Richetti sarà coordinatore e portavoce dei comitati del Sì.

Infine, un mese fa, è tornato a Palazzo Chigi il presidente del Piemonte Sergio Chiamparino. Anche lui renziano della prima ora, l’unico ex Pci-Pds-Ds di peso a fare il suo endorsement per il sindaco di Firenze quando tutto l’apparato dell’ex Bottegone si era mobilitato per Bersani. Nell’ultimo anno, però, il legame si era incrinato, fino a provocare le dimissioni di Chiamparino dalla presidenza della conferenza Stato-regioni. E l’ex sindaco di Torino era pronto a dare a Renzi un dispiacere ancora più grosso, a dichiarare in pubblico il suo no al referendum. Dopo un colloquio di dure ore con Renzi Chiamparino ha cambiato opinione, dal no al sì critico.

Nel recupero di critici, dissidenti, malpancisti, Delrio tesse la sua tela, silenziosa, nascosta. Qualche settimana fa, per esempio, il ministro è stato a Napoli, alla festa della fondazione di Antonio Bassolino, e ha messo d’accordo l’ex sindaco, favorevole al sì ma in polemica violenta con il Pd, e l’attuale primo cittadino Luigi De Magistris, che invece milita nel fronte del No e da mesi si contrappone a Renzi per la decisione di commissariare l’area di Bagnoli escludendo il Comune: «Delrio era contrario a questa scelta», giura De Magistris. E c’è mancato poco che cambiasse idea anche lui.

È l’operazione Ponte tra Renzi e l’elettorato più periferico che finora è mancato. Il Sud, in gran parte schierato per l’astensione o per il No. E un pezzo di società che fatica a riconoscersi nei due fronti contrapposti e nella narrazione renziana del Paese in crescita, quella che si è vista durante la cena alla Casa Bianca con Barack Obama. Delrio circola in questi giorni con l’iPad in mano, mostra a tutti una slide del governo Renzi: «È la più importante di tutti. Una chance a chi ce la fa, una mano a chi non ce la fa». Dare voce non solo ai vincenti, ma anche a chi resta indietro, ai perdenti della sfida. Sembra una sottigliezza, ma è la filosofia dell’ultima legge di bilancio spiegata dal ministro: la legge sulla povertà, il piano per il dissesto idrogeologico, il progetto “Dopo di noi” per i disabili, il servizio civile per i giovani. L’immagine di un renzismo dal volto sociale, oscurata dalla fase trionfale del premier, quella del Pd al 40 per cento, precocemente ingiallita.

Il Pontiere lavora già sul dopo 4 dicembre, e su altri fronti. Delrio presidia il rapporto con Romano Prodi, silenzioso sul referendum. Delrio è il ministro del governo Renzi meglio introdotto in Vaticano, papa Bergoglio si complimentò con lui in pubblico per i nove figli: «Avete vinto in campionato!». Delrio è soprattutto oggi l’interlocutore naturale di Sergio Mattarella: comune cultura cattolico democratica, un modo simile di guardare alle cose, l’amicizia che lega entrambi a Pierluigi Castagnetti, reggiano come il ministro e inventore dell’ingresso in politica di Delrio che faceva il medico ed era lontano dalle alchimie partitiche.

È il partito invisibile nei talk show e senza truppe in Parlamento di chi si preoccupa, fin da ora, per quello che succederà il giorno dopo: il day after tomorrow il 4 dicembre, quando a risultato acquisito, in ogni caso, bisognerà ricostruire dopo una durissima contrapposizione politica. In caso di sconfitta del No, Delrio ripete con gli amici una frase cara all’inventore dell’Ulivo Arturo Parisi, suo amico: «Possiamo perdere, ma non perderci».

Non si può cambiare pelle. Non si potrebbe fare finta che non sia successo nulla. E anche se in molti, ora perfino Obama, chiedono a Renzi di restare al suo posto e di non dimettersi, è probabile che il premier seguirà il suo carattere e la sua natura e aprirà la crisi di governo, lasciando al presidente Mattarella la responsabilità di decidere sul proseguimento della legislatura. In caso di un nuovo governo, chiamato ad approvare una nuova legge elettorale per la Camera e per il Senato, Delrio entrerà a pieno titolo nella strettissima cerchia dei possibili successori, con maggiori possibilità rispetto a Dario Franceschini e alla pari, almeno, con Padoan, che rappresenterebbe la variante tecnica. Ma anche in caso di vittoria del Sì l’influenza di Delrio è destinata a crescere, questa nel partito.

Nel Pd si prepara il prossimo congresso che deciderà quanto conteranno le correnti vecchie e nuove e il bilancino delle prossime candidature alla Camera. Finora Renzi ha sempre visto di cattivo occhio e ha bloccato ogni tentativo di fondare un raggruppamento in suo nome, legato a Delrio e ai renziani della prima ora. Ma dopo il 4 dicembre potrebbe cambiare idea, soprattutto se la carica dei sindaci dovesse trasformarsi nell’ossatura della futura formazione: ben più che il decrepito apparato pre e post renziano che ha perso le elezioni amministrative di primavera e che finora non è stato capace di organizzare neppure un banchetto o un gazebo per il Sì, qualcosa di diverso anche dal progetto del partito della Nazione allargato agli ex berlusconiani, indigesto agli elettori del centrosinistra.

Comunque vada, anche in caso di prevalenza del Sì, Renzi è destinato a vincere ma non a stravincere. E avrà bisogno di chiudere con la fase del giglio magico e di allargarsi ad altre sponde. Il ponte, già «Il ponte non è un fine, è un mezzo», ha spiegato Delrio a proposito del disegno di collegamento sullo stretto di Messina. Ovvero: si fa se serve a qualcosa. Ma vale anche per lui, in politica. Il ponte chiamato Delrio in questo momento è un mezzo sui cui far transitare tanti progetti. Prima di tutto, la vittoria al referendum. Poi, il giorno dopo il 4 dicembre.

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