Politica
14 aprile, 2016

La primavera avvelenata di Matteo Renzi

Matteo Renzi
Matteo Renzi

Il premier si gioca tutto da qui all’autunno, quando si terrà il referendum sulle riforme costituzionali, tra dossier, guerre di apparati e manovre delle lobby. Mentre i sondaggi ne danno in discesa il consenso

Matteo Renzi
La grande paura, ora che cominciano i sei mesi decisivi. Con il sì definitivo della Camera di martedì 12 aprile alla riforma della Costituzione, l’alfa e l’omega di Matteo Renzi, il punto di partenza e il punto di arrivo per il premier venuto da Firenze, sono cominciati i sei mesi che porteranno al referendum fine-del mondo su cui il capo del governo punta tutte le sue carte.

Un semestre bianco su cui si concentrano le sfide e i timori, come nei sei mesi che precedono l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Pressioni. Veleni. Minacce. «Sono molto preoccupato...», scuote la testa un ministro mentre l’aula di Montecitorio vota per cambiare la Costituzione, tra i banchi vuoti, con il Pd e la maggioranza da soli a partecipare al passaggio storico.

Eppure doveva essere il momento del trionfo, una giornata storica, l’addio al Senato fotocopia della Camera così com’è stato in settant’anni di vita repubblicana, invece il via libera alla riforma arriva nel momento più difficile. Sondaggi in discesa, per il Pd e per il gradimento personale di Renzi, più basso perfino delle percentuali di voto per il suo partito.
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La vigilia del referendum sulle trivelle del 17 aprile, con l’incognita sulla percentuale dei votanti: il raggiungimento del quorum sembra lontano anche ai promotori, ma sul quesito ambientalista i due fronti che si scontreranno in futuro, i renziani e i no-Renzi, ben più che gli astensionisti e i no-Triv, sondano l’opinione pubblica, fanno le prove generali dell’autunno. E sono apparsi, per la prima volta in due anni i carteggi. I dossier.

Le guerre tra gli apparati. Le manovre delle lobby alle spalle dei ministri, con la sospetta complicità di pezzi dello Stato. E infine, più sgraditi di tutti, i corvi che volano sopra, accanto e addirittura all’interno del governo Renzi.

Nelle ultime due settimane il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi è stata costretta a dimettersi dopo l’intercettazione con il suo compagno Gianluca Gemelli, indagato dai pm di Potenza. Un altro esponente del governo, il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo, presidente della regione Basilicata dal 2005 al 2013, è finito sotto inchiesta.

Un ministro di primissimo piano, il titolare delle Infrastrutture Graziano Delrio, è andato in procura a denunciare un complotto contro di lui. Nelle intercettazioni dell’inchiesta è risultato infatti che un consulente della Guidi, Valter Pastena, uomo di casa in numerosi ministeri, si vantava al telefono con Gemelli di poter arrivare a un dossier contro Delrio preparato dai carabinieri («Chi conduce le indagini è il mio migliore amico»), con tanto di foto dell’ex sindaco di Reggio Emilia in compagnia di uomini della ’ndrangheta.

E negli ultimi giorni un dettagliato, informatissimo dossier anonimo spedito alla presidenza del Consiglio, ai vertici militari, alle procure di Roma e di Potenza e ai giornali è piovuto sull’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, capo di stato maggiore della Marina, anche lui sotto inchiesta a Potenza. Insinuazioni personali, accuse gravissime, immagini grottesche, come quella del cavallo bianco che accolse gli invitati a un cocktail a bordo della Vittorio Veneto a New York, e ben più corpose vicende di appalti che riportano a Pastena.

Come la convenzione della Marina con la ditta Aeronautical Service, per produrre scafi veloci, nonostante fosse stata dichiarata inadeguata alle esigenze produttive. «Valter Pastena ha visto passare tra le sue mani oltre cinque miliardi di euro da destinare all’ammodernamento della flotta, gli è venuta l’acquolina in bocca tanto da ricercare, e facilmente ottenere, questo patto scellerato con il De Giorgi», scrive il corvo. «Poi si sa, una cosa tira l’altra, ed ecco che i due si ritrovano sempre insieme, e a volte insieme ad altri (si chiamano lobby?)».

Per missive di questo tipo, anonimi ben informati su manovre e affari, in Vaticano tre anni fa finì per dimettersi il papa. Nel laico governo repubblicano, invece, il fascicolo è stato accolto con un silenzio imbarazzato e De Giorgi è rimasto per ora al suo posto. Eppure è passato di mano in mano, in tutti i palazzi, con crescente inquietudine. E nonostante le smentite della Marina la maggior parte delle informazioni e dei documenti allegati alla lettera è stata considerata credibile nelle stanze del governo.

Ma il papa si dimette, l’ammiraglio no. In sua difesa, al momento dell’apertura dell’inchiesta di Potenza, è intervenuto Renzi, in pubblico («lo stimo molto, credo sia una persona di cui l’Italia può essere orgogliosa», ha detto il premier alla trasmissione di Lucia Annunziata) e in privato.

Più discretamente si è fatto sentire il Quirinale: De Giorgi è un servitore dello Stato in scadenza, è in arrivo la sua sostituzione per limiti di età, meglio non infierire, anche se fino a qualche giorno fa il potente ammiraglio dimostrava di non avere nessuna intenzione di ritirarsi a vita privata, puntava su una proroga del mandato e poi alla guida della Protezione civile. Si muoveva negli ambienti della politica come se contasse più di molti ministri, forte dei suoi rapporti personali, di una corsia preferenziale con Palazzo Chigi.

Nell’inchiesta c’è anche il racconto del decreto di nomina per la presidenza del porto di Augusta che nel 2015 fu “strappato” dal ministro delle Infrastrutture Delrio su richiesta di Ivan Lo Bello, con la conseguente proroga nella casella-chiave del porto più importante della Sicilia orientale di Alberto Cozzo, amico di Gemelli. Circostanza negata da Lo Bello, già presidente di Confindustria, uomo-simbolo della nuova stagione antimafia dell’associazione imprenditoriale siciliana, oggi piuttosto scolorita dopo l’inchiesta che coinvolge l’attuale presidente Antonello Montante. Lo stesso Gemelli, il compagno della Guidi, era un pupillo di Lo Bello, inserito anche grazie a questa credenziale nel consiglio di amministrazione di importanti società (come lo Ias, l’Industria Acqua Siracusana) e al vertice di Confindustria Siracusa.

Una rete di legami di cui andrà dimostrato il profilo penale. Ma sul piano politico c’è l’incredibile facilità con cui imprenditori, mediatori, faccendieri continuano ad arrivare ai vertici del governo, a influenzare le decisioni nel cuore del potere romano, anche nell’era Renzi.

E la prudenza sul caso De Giorgi, da parte di un premier che ha fatto del decisionismo, «la democrazia decidente», il suo tratto identitario, è l’indizio di una consapevolezza. C’è un fronte scoperto nel governo «più riformista della storia repubblicana», come ama definirlo Renzi. Qualcosa che riguarda la sua composizione, il peso politico e l’autorità dei singoli ministri, il modo di intendere il rapporto tra Palazzo Chigi e i ministeri, il cuore del potere, ritenuto sempre forte, fortissimo,e che ora si scopre all’improvviso fragile, permeabile alle guerre grandi e piccole delle lobby e degli apparati.

Dossier e inchieste della magistratura a parte, l’inizio del Semestre bianco è segnato da un cambio di immagine. Ministri bypassati, delegittimati, privati della possibilità di decidere, perché nel governo conta soltanto il premier con il suo gruppo ristretto e tutti gli altri sono interscambiabili. E altri ministri messi nel mirino.

Il ministro Delrio su cui spunta un dossier all’epoca dei fatti, gennaio 2015, era ancora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il numero due del governo, l’uomo più vicino a Renzi, anche se in rapporti gelidi con l’altro sottosegretario, il giovane Luca Lotti. In quei giorni si parlava di lui come possibile nome di Renzi per la presidenza della Repubblica dopo Giorgio Napolitano. Chi intendeva macchinare contro di lui, dunque, sapeva di puntare su un candidato al Quirinale, come nelle stagioni più buie della storia repubblicana. Anche se, in questo caso, a parlarne forse a sproposito sono i campioni di un’epoca minore: piccoli affaristi per piccole manovre.

Il diretto interessato, Delrio, non commenta le notizie che lo riguardano: «Per me parla il gesto che ho fatto: non ho aspettato un minuto ad andare in procura». Ma non nasconde di avvertire uno strano clima di tensione attorno al governo e cerca una spiegazione politica. «Siamo alla vigilia di un passaggio fondamentale, decisivo.

Nei prossimi sei mesi ci sarà il referendum sulla Costituzione e l’entrata in vigore della nuova legge elettorale. Se tutto va bene portiamo a casa la riforma e arriviamo alla fine della legislatura. Nel 2018 il governo Renzi sarebbe per durata il governo più longevo della storia repubblicana, con la possibilità di vincere le elezioni e di governare per altri cinque anni grazie alle nostre riforme. Stiamo per cominciare una stagione di stabilità che questo Paese non ha mai conosciuto...». Se tutto va bene per Renzi finirà così, ma cosa c’entra con i veleni di queste settimane? «Ci sono troppi poteri che in questo Paese non accettano un governo stabile, non sono abituati ad avere di fronte un interlocutore forte», risponde Delrio.

Un segnale d’allarme. È il semestre bianco del governo Renzi lo spazio in cui bisogna infilarsi. E le difficoltà mettono il premier di fronte a un bivio. Riprendere il contatto diretto con la società italiana, a colpi di Twitter, dialoghi con la Rete su Facebook, apparizioni televisive, viaggi sul territorio. Con il rischio che tutto si concentri sulla sua persona. E che a furia di disintermediare, come ripete il premier, a resistere siano quei settori e ambienti che abitano la zona grigia, la terra di mezzo tra la politica e gli affari: per forza di pressione, per contatti personali, con l’aiuto di apparati statali.

Oppure può ricompattare la sua squadra, uscire dal gioco dell’uno contro tutti, il suo preferito, cercare alleanze inedite. In fondo, perfino il suo rivale più pericoloso, l’ex premier Enrico Letta, ha lanciato un messaggio: al referendum di ottobre voterà sì, un voto sulle riforme e non sulla persona del premier. Un gesto di pace in questa fase di guerra che anticipa l’inizio del semestre renziano.

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