«Tra Italicum e plebiscito Renzi vuole un potere ancor più illimitato», scrive il professore. E il “no” alla riforma deve dunque restare nel merito della crisi democratica, visto che «già ora non esiste più un controllo di partito, il parlamento è sfibrato e delegittimato, non si avverte una stampa libera e plurale»
Se il governo riesce a far passare l’idea secondo cui con il referendum non sono in gioco grandi nodi di democrazia, allora a ottobre avrà facilmente partita vinta. Rinunciando a mobilitare l’opinione pubblica attorno al (fondato) pericolo di una restrizione della rappresentanza e degli equilibri sistemici di garanzia, il fronte del no rimarrebbe infatti privo della sua carta principale. Perché non è dei toni della comunicazione, ciò di cui si deve discutere: è la tenuta della carta, come valore essenziale della Repubblica, il tema vero della contesa.
Invece ottenendo di espellere dall’agenda lo spettro del rischio del
dispotismo di minoranza, il governo intasca una carta pesante e costringe i sostenitori del no a cimentarsi su questioni tecniche poco rilevanti. La malattia mortale delle riforme è l’Italicum e vano sarebbe limitarsi, come vuole il governo, a parlare solo di dettagli relativi all’organizzazione del Senato, lasciando così fuori dal confronto pubblico il nodo più grande del contendere.
Una questione democratica è infatti aperta ab origine, da quando il governo ha monopolizzato il lavoro per le riforme come affare di partito. Renzi dichiara esplicitamente di aver avuto il mandato dal Quirinale: ma può il Capo dello Stato conferire un incarico di parte per le riforme, appaltando così la Carta al governo? Il pericolo per la democrazia non è dunque consegnato in un indistinto futuro, ma è percepibile già ora una temibile regressione della cultura delle regole.
La Costituzione appare come una Carta deprivata di ogni normatività, ridotta a volontà di potenza che erode il sistema delle garanzie. Non a caso Renzi fa prove muscolari, respinge il dialogo e poi si gioca il suo destino personale, la sua leadership, con il referendum. Con questa esasperazione, la Costituzione stessa diventa oggetto di competizione. E per il premier è il terreno perfetto. La Costituzione smarrisce ogni normatività e si scioglie nel processo politico. Ma se il governo impone le riforme e il referendum diventa l’occasione per legittimare il titolare del potere, cade già il senso minimo delle istituzioni in uno Stato costituzionale di diritto.
Spinose questioni di democrazia sono dunque già aperte. E se chi è contrario alle decisioni del governo è assimilato ai fascisti del terzo millennio, il potere compie una operazione tipica delle mentalità autoritarie: delegittimare l’altro, negare cittadinanza al diverso, che diventa il radicale nemico, la forza estranea che sta fuori dalla norma. E la norma non è la Carta, ma ciò che il potere ritiene utile ai propri disegni. Quando si dice che a Renzi non ci sono alternative, si completa un cortocircuito molto preoccupante. Una democrazia senza alternative non è più tale. Ma nel tombale silenzio dei custodi, nell’afonia dei presidenti delle camere, l’inquilino di palazzo Chigi può permettersi di affermare: «I parlamentari della Lega e M5s li capisco, rischiano il posto. Sono terrorizzati dalla idea mistica di tornare a lavorare».
In un sistema di pesi e contrappesi, con meccanismi di controllo e argini operanti, queste parole verrebbero stigmatizzate come attentati all’autorevolezza, alla dignità delle istituzioni repubblicane. E invece tutto il populismo di governo viene tollerato quando aggredisce le prerogative di istituzioni essenziali della Repubblica. Senza ricevere alcun richiamo formale, Renzi presenta i candidati delle liste d’opposizione alla stregua di «chi firma un contratto della Casaleggio, come fosse un co.co.pro». E come fa il presidente del Consiglio a garantire la normalità della competizione elettorale se l’opposizione viene delegittimata, e addirittura, come soggetto non libero, viene raffigurato chiunque la voti?
Ma in una democrazia già minore, nessuno osa difendere gli organi della Repubblica e Renzi - che nessuno ha mai eletto in cariche di rappresentanza - si può proporre come il vero rappresentante degli umori del popolo, mentre i deputati d’opposizione, che sono stati regolarmente eletti, non sono ritenuti rappresentativi del vero animo della gente. Anzi. Sono soltanto delle inutili figure incollate alle poltrone e operano contro gli autentici impulsi popolari.
Questa sottrazione di rappresentanza a chi svolge la funzione di opposizione è di una estrema pericolosità. Renzi attacca il decoro delle funzioni pubbliche e quindi mina alla radice la dignità delle istituzioni differenziate. A nessuno sfugge che con l’Italicum e il plebiscito d’autunno Renzi tende ad assumere un potere ancor più illimitato. Già ora non esiste un controllo di partito, il parlamento è sfibrato da operazioni di quotidiano trasformismo e delegittimato, non si percepisce la sorveglianza degli organi di garanzia, non si avverte una stampa libera e plurale.
Il “no”, in questo quadro, nel merito, è un estremo tentativo di proteggere la normatività della Carta, la rigidità della Costituzione. La difesa della democrazia dagli appetiti del governo personale sregolato, è la vera posta in gioco del referendum. Democrazia o forme postmoderne di autocrazia: torna d’attualità il dilemma di Kelsen.