Il primo turno con il risultato di Roma e Napoli sancisce la fine del mito del premier invincibile. Una sconfitta al secondo riaccenderebbe le manovre nel governo e nel partito

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In fondo il primo a capire come sarebbero andate le cose era stato lui, sei mesi fa. «Alle elezioni amministrative si eleggono i sindaci, non i primi ministri», aveva detto Matteo Renzi quando il voto era ancora molto lontano, alla conferenza stampa di fine anno 2015, il 29 dicembre. Una linea da cui non si è mai spostato: togliere al voto nelle grandi città un qualsiasi valore politico, saltare il turno elettorale e buttarsi a capofitto nella lunga campagna per il referendum sulla Costituzione di ottobre. Una strategia che sembrava coerente e che invece, forse, tradiva preoccupazione per l’esito del voto, anche da parte di un leader che di certo non teme le competizioni come Renzi.

«Ci sono problemi per il Pd», ha affermato il premier all’indomani del primo turno elettorale, una mezza sconfitta perché ancora a metà è il percorso, il 19 giugno ci sarà il secondo turno nelle città e il Pd ha buone possibilità di giocare per la vittoria quasi ovunque. «Tranne Roma...», un refrain ripetuto più volte in questi giorni. Nella capitale il risultato più bruciante, perché a dispetto delle dichiarazioni ufficiali alla vigilia del voto nessun dirigente del Pd si aspettava davvero di trovarsi a undici punti dalla candidata del Movimento 5 Stelle, l’avvocato Virginia Raggi, la prima a riportare Roma sulle copertine delle grandi testate internazionali con un segnale di novità e non con il nome della città associato a mafia, scandali, rifiuti per strada, affittopoli, degrado.

A Roma il candidato renziano Roberto Giachetti si è ritrovato, senza responsabilità personali, ad affrontare il calvario dell’eredità di Mafia Capitale e della cacciata di Ignazio Marino. E si sfoga: «Per tre mesi ho incontrato solo due tipologie di persone. Quelli che: a Giache’ ti voto nonostante il Pd. E quelli che: a Giache’ sei onesto, ma non posso votarti perché sei del Pd. Altro non ho visto. Nessuna domanda sul nostro programma per la città. Fine». Via Crucis e miracolo sono categorie invocate per il laicissimo ex radicale Giachetti, in attesa di tentare la difficilissima resurrezione al secondo turno.

Nelle altre città, Milano, Torino (e Bologna) si fanno gli scongiuri. Napoli è già saltata, la candidata Valeria Valente non è neppure arrivata al ballottaggio, «peggio non poteva andare», ha commentato Renzi. In realtà il peggio va ora evitato a tutti i costi. L’uomo dell’attacco passa alla difesa, al catenaccio all’italiana. Al secondo turno bisogna difendere Milano, Torino e Bologna perché le elezioni che dovevano eleggere i sindaci e non il premier si sono trasformate in modo imprevedibile in un sondaggione sulla capacità di tenuta della sua leadership. E la posta in gioco è salita. Renzi scommette tutto sul referendum di ottobre, ha già dichiarato che in caso di vittoria del no lascerà il governo e la politica, ma anche nel secondo turno amministrativo rischia molto, su almeno tre fronti. Un’improvvisa incertezza sulla strategia politica. La scoperta che qualcosa si è spezzato nella comunicazione tra il capo del governo e un pezzo di società italiana che pure lo ha appoggiato e votato nel 2014. La fine del mito dell’invincibilità e dell’invulnerabilità del leader, che riaccende le manovre nel partito e nel governo.

«Alcune alleanze non hanno funzionato», ha ammesso Renzi, con riferimento al patto con Denis Verdini e con il suo partitino Ala. Indispensabile nel Palazzo, al Senato, inesistente nella società e nell’elettorato. A Napoli, per esempio, l’accordo ha consegnato alla Valente 5361 voti, l’1,4 per cento, una miseria, ininfluenti per il risultato finale, ma in compenso al Nazareno si chiedono quanti voti abbiano fatto perdere nel resto della penisola le uscite del senatore Giuseppe D’Anna contro Roberto Saviano. Nei prossimi giorni, prevedono i sodali di Verdini, «Denis farà finta di litigare con Matteo», ci sarà qualche gesto di ostilità al Senato, in attesa di capire da che parte tira il vento.

Ma anche il premier ora deve dimostrare di aver capito la lezione.

I primi a saltare saranno i comitati del Sì al referendum allargati a Verdini e ai centristi di Angelino Alfano: dovevano essere l’anticamera di un ipotetico nuovo listone con il Pd alle elezioni del 2018, non si faranno più. Il partitino del ministro dell’Interno nelle grandi città ha percentuali irrisorie: l’1,2 a Roma, sotto il due per cento a Napoli, appena il tre per cento a Milano dove c’è l’ex ministro Maurizio Lupi e l’Ncd fa parte della coalizione che sostiene Parisi. Troppo poco per un partito che a Roma esprime ministri e sottosegretari e fa il pieno del potere.

Ma per Renzi l’incertezza strategica va al di là dell’alleanza con Alfano e dei patti con i verdiniani. A Milano Giuseppe Sala era stato lanciato dal premier come il candidato perfetto del partito della Nazione, il partito-Expo, destinato a essere votato trasversalmente anche dall’elettorato di centro-destra che non vuole finire egemonizzato dalla Lega di Matteo Salvini. Invece, l’entrata in scena di Stefano Parisi come candidato del fronte opposto ha capovolto la questione. Impossibilitato di “sfondare al centro”, come si sarebbe detto un tempo, Sala è stato costretto a cambiare in corsa pelle e a provare a fare il pieno dei voti della sinistra che si è riconosciuta per cinque anni in Giuliano Pisapia. Una conversione spericolata. Come quella di Renzi che ha esaltato il risultato di Cagliari, con il sindaco Massimo Zedda rieletto al primo turno: peccato che Zedda militi nella sinistra extra-Pd e che l’alleanza vincente sia opposta a quella stretta con Verdini.

A preoccupare ancora di più Renzi è l’idea che qualcosa si sia incrinato nel rapporto con la parte centrale dell’elettorato, il ceto medio che due anni fa premiò il Pd con lo stratosferico 40 per cento dopo gli 80 euro e i segnali di attenzione che arrivavano dal capo del governo. «Abbiamo pagato la crisi sociale che si sente soprattutto nelle grandi città, il malessere, il disagio, la disaffezione», ha spiegato il sindaco di Torino Piero Fassino nelle ore successive al grigio risultato del primo turno. Già, la crisi c’è ancora, nonostante il racconto della realtà tutto positivo che arriva da Palazzo Chigi. «Nelle grandi città non si vota sulle amministrazioni, ma sul Paese», ragiona un altro antico fondatore del Pd, Antonio Bassolino, escluso dalla corsa di Napoli dal contestato voto delle primarie. «L’idea che questo sia un voto amministrativo senza valore politico è surreale», dice l’ex governatore della Campania. «Il voto di Roma, Milano, Napoli, Torino vale di più di un’elezione politica per capire cosa pensano i cittadini del governo nazionale. Renzi ha avuto un momento di svolta alla fine del 2015. A gennaio una fase era terminata, avrebbe dovuto cambiare squadra di governo e dirigenza di partito, e lo dico da renziano, invece non l’ha fatto. Ha lasciato che sui territori tutto procedesse con l’ordinaria amministrazione. A Napoli i suoi peggiori nemici sono i renziani dell’ultima ora, gli opportunisti. Gli hanno preparato l’alleanza con Verdini e hanno fatto credere che il Pd fosse il partito del governo, lasciando a Luigi De Magistris le praterie del malcontento. Hanno regalato a Renzi un pacco avvelenato».

«Una fase è finita, ma Matteo non l’ha capito», ragiona a Roma un renziano di strettissima osservanza. «Nel 2014 Renzi era Robin Hood: rubava ai ricchi per dare ai poveri, gli 80 euro e le altre misure erano necessarie per dare una scossa al corpaccione del Paese sfinito dai sacrifici della stagione Monti-Letta. E c’erano i potenti sceriffi di Nottingham da sconfiggere: la Cgil, Massimo D’Alema... Oggi questo schema non funziona più: ogni nuova promessa rischia di deludere, perché al governo c’è Renzi e non si può ripetere che arriveranno gli 80 euro per le pensioni minime senza poi avere le risorse per farlo. I grandi avversari di un tempo sono spariti ed è ridicolo ripetere lo stesso schema contro nemici inesistenti. Matteo era Robin Hood, oggi rischia di fare la parte dello sceriffo. Deve cambiare schema di gioco». In questa chiave il no-tax day del 16 giugno rischia di essere controproducente. E la prossima legge di stabilità potrebbe trasformarsi in una beffa: impegni che non possono essere mantenuti, con una crescita economica anemica.

Infine, c’è per il premier il rischio che un risultato negativo al secondo turno del 19 giugno riapra la tensione interna al Pd e nella squadra di governo. «La mucca nel corridoio», l’ha definita con una delle sue metafore Pier Luigi Bersani, un problema enorme che tutti hanno finto di non vedere. «Matteo ha di fronte a sé due strade», dice Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria nel 2013, in questi mesi il più pungente oppositore interno. «Può continuare a fare il suo gioco, anzi accelerare. Puntare tutto sul voto di ottobre, trasformare il Pd in un grande comitato elettorale per il referendum, la metamorfosi del Pd in partito del Sì, con il rischio però che quelli del No si coalizzino tutti contro di lui e siano di più. Oppure può mettere mano al partito nominando alla segreteria un dirigente capace di dialogare con tutti, per esempio il ministro della Giustizia Andrea Orlando». Per ora sembra una strada sbarrata: Renzi non ha nessuna intenzione di mollare il doppio incarico premier-segretario del Pd, non ama i vice-segretari unici e i reggenti e non ha interesse a ritoccare la squadra di governo. Dopo il secondo turno qualche cambiamento ci sarà, per esempio la cancellazione in blocco dell’attuale segreteria, organo inesistente che non si riunisce da mesi. Ma è solo un piccolo restyling in vista dello scontro finale, il voto sul referendum di ottobre.

Non si torna indietro, ma forse qualcosa andrà cambiato almeno nella comunicazione, perché l’identificazione tra il Sì e il partito di Renzi per ora ha tolto consensi ai sindaci del Pd nelle città e rischia di essere dannosa, come aveva avvertito prima del voto Fassino. «In caso di sconfitta lasceremo il governo e anche la politica», ripeteva qualche giorno fa durante il ricevimento nei giardini del Quirinale per la festa della Repubblica il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi. Aggiungendo: «Dopo, nel caso, bisognerà fare un altro governo e un’altra legge elettorale, vedremo con chi. Non credo che il Pd ci starà...». Suona come un avviso: anche in caso di sconfitta Renzi e i suoi non si toglieranno certo di mezzo. Sarà a ottobre che il rischiaRenzi del voto cittadino di oggi diventerà un rischiatutto. È la condanna di un leader costretto a non essere normale, a vincere sempre.