Governo indebolito, partiti divisi, 5 Stelle nel caos. In vista del referendum si annuncia un autunno politico ad altissimo rischio. Potrà uscirne ?una crisi del sistema o un nuovo inizio. Molto dipenderà dalle scelte di un protagonista finora rimasto nell’ombra. Il Presidente della Repubblica

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Le sue giornate procedono come sempre, in apparenza. Sveglia alle sette, colazione e lettura dei giornali, due rassegne stampa, i quotidiani da sfogliare sull’iPad, alle nove in ufficio. In mattinata appuntamenti, incontri e udienze, poi il pranzo da solo in appartamento, rapida siesta, ritorno al lavoro. Nulla sembra intaccare lo stile di un uomo che non è stato cambiato neanche dagli alti incarichi che è stato chiamato a ricoprire. Eppure Sergio Mattarella è consapevole che tutto sta mutando attorno a lui.

La fine dell’estate 2016 coincide con la vigilia di quelli che saranno i mesi più difficili del suo mandato, con un sistema politico che sembra vivere sospeso, come in attesa della tempesta perfetta. In cui il presidente, descritto dai suoi critici come invisibile, silente, assente, sarà spinto sempre di più a intervenire. Come ha fatto parlando a braccio e fuori programma martedì 6 settembre nel Teatro Grande di Brescia, per ricordare Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario della Dc che fu suo amico: «La mitezza della politica non significa debolezza, è propria di chi è convinto della forza delle proprie opinioni, non teme di confrontarle con quelle degli altri, non pretende di imporgliele...». Nelle stesse ore, altro che mitezza, si consumavano a Roma la crisi della giunta di Virginia Raggi e il crack del Movimento 5 Stelle, con il ritorno in scena di Beppe Grillo.
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Il presidente del Consiglio Matteo Renzi confermava in tv la sua volontà di dimettersi in caso di vittoria dei No al referendum sulla riforma della Costituzione. Il centro-destra si divideva nell’elenco degli invitati e delle defezioni alla riunione convocata da Stefano Parisi, per conto di Silvio Berlusconi. E i sindaci della Lega, per ordine di Matteo Salvini, disertavano la visita del capo dello Stato nella provincia bresciana. L’anticipo di quello che potrebbe accadere da qui al voto referendario. Con il rischio concreto di restare senza legge elettorale: né per la Camera, in caso di bocciatura dell’Italicum da parte della Corte costituzionale, né per il Senato, in caso di vittoria dei No al referendum. E, sullo sfondo, una crisi di governo, che potrebbe trasformarsi in crisi di sistema. La mitezza appare l’equipaggiamento meno adatto per reggere all’urto dei prossimi mesi, la bufera alle porte, né il messaggio più sexy da trasmettere a un paese a crescita zero in economia. Eppure diventa necessaria, ora che i governanti che si ritenevano indispensabili e i profeti dello scontro a ogni costo sembrano fallire nei rispettivi progetti, nello stesso momento. Ora che chi si presentava come nuovo sembra improvvisamente invecchiato. E chi veniva raffigurato come vecchio, si ritrova a incarnare il nuovo.

Mite lo è per davvero, Mattarella. Mai visto arrabbiato, giura chi lo conosce da sempre. Mai si è adirato con qualcuno, mai è stato sentito alzare la voce. E non ha nessuna intenzione di cominciare a farlo ora. Nella sua agenda, per le prossime settimane, sono cerchiati due interventi e due nomi. Ci sta lavorando da tempo il suo ghost-writer, l’ex direttore dell’“Unità” Claudio Sardo.

Nelle prossime settimane, dopo Martinazzoli, Mattarella ricorderà Aldo Moro, a cento anni dalla nascita, e Sandro Pertini, 120 anni dopo. Due personaggi della Prima Repubblica, diversissimi tra loro: il tessitore cattolico rapito e ucciso dalle Brigate rosse e il partigiano socialista che fu eletto al Colle due mesi dopo quell’omicidio. Due protagonisti della Prima Repubblica che hanno segnato la  vita dell’attuale inquilino del Colle. Il primo, «il capo di cinque governi, punto fisso o stratega di almeno dieci altri, la mente fina, il maestro sottile di metodica pazienza», come lo descrisse il poeta Mario Luzi, è l’ispiratore di tutta la sua azione politica, il suo modello. Il secondo è stato suo predecessore al Quirinale, estimatore del fratello Piersanti, il presidente della regione Sicilia assassinato in un delitto politico-mafioso ancora oscuro il giorno dell’epifania 1980. «Pertini è rimasto talmente colpito che stanotte non è riuscito a chiudere occhio pur avendo inghiottito due pasticche di sonnifero», appuntò quel giorno sul suo diario il portavoce Antonio Ghirelli. «All’interno della chiesa, durante i funerali, il presidente ha puntato diritto al banco dove sedeva la vedova con la mano destra avvolta in una grossa fasciatura, il viso distrutto. L’ha abbracciata piangendo e mormorando: “Ho perduto un amico”». Sergio era in prima fila, quel giorno.

In queste settimane Mattarella si è ritrovato a svolgere un paziente lavoro di ricucitura politica, come faceva Moro, e a rappresentare lo Stato camminando in mezzo alle macerie, consolando i parenti delle vittime di attentati o di catastrofi naturali, come successe a Pertini. È riuscito a sfiorare con timidezza il dolore per chi non c’è più, la rabbia di chi è rimasto: lo ha fatto più volte in questi mesi, dopo la strage ferroviaria in Puglia, il massacro degli italiani in Bangladesh ad opera dei terroristi dell’Isis, il terremoto di Amatrice. Lontano dai riflettori, quando la sensibilità umana lo richiedeva: negli ospedali, con i feriti. Il risultato è un presidente in crescita. Di popolarità e di autorevolezza. Nel mondo politico viene avvertito come un appiglio in caso di naufragio. «Il paese ha bisogno di un punto di rassicurazione. Qualcuno che sia più empatico che carismatico», osserva Pierluigi Castagnetti, amico di Mattarella. E ancor più ne avrà bisogno quando lo scontro referendario si accenderà sul serio.

Di voto sulla riforma costituzionale Mattarella ha parlato in pubblico una sola volta, a luglio, ricevendo i giornalisti della stampa parlamentare. Ha fissato due paletti: che la campagna elettorale avvenga sul merito della riforma e che i cittadini siano realmente informati sulla materia del voto. Due osservazioni non scontate, perché rivelano in controluce i timori del presidente. Evitare la personalizzazione dello scontro, il voto pro o contro Renzi. E impedire che il Paese si divida sulla Costituzione che è la regola del gioco per tutti. Al Quirinale, in realtà, si guarda avanti. C’è la preoccupazione che la vittoria del No al referendum sia interpretata dalle cancellerie internazionali come la conferma che in Italia i cambiamenti sono impossibili. E c’è qualche perplessità sul funzionamento di alcuni punti della riforma che nel caso di vittoria del Sì andrebbero attuati con attenzione. 

Visto dal Colle, il sistema politico e economico italiano presenta al tempo stesso potenzialità enormi, riserve di positività, e tendenze all’auto-distruzione. A differenza del suo diretto predecessore Giorgio Napolitano, Mattarella non ama pubblicizzare i suoi interventi presso gli altri palazzi romani. Legge tutti i retroscena, ma non smentisce mai. Il suo Quirinale è, prima di tutto, un gigantesco centro di ascolto in cui confluiscono appelli, richiami, allarmi, progetti. Di imprenditori, parti sociali, istituti di ricerca, associazioni, insegnanti, studenti, il mondo del volontariato. I corpi intermedi che si davano per defunti. E, naturalmente, gli altri attori del gioco politico: i partiti, le Camere, i ministeri, il governo. A tenere i rapporti quotidiani c’è lo staff presidenziale, discreto e riservato com’è nel dna della casa. Il cerchio stretto, i collaboratori di sempre, «quelli che danno del tu a Sergio», sintetizzano gli amici, è guidato dal segretario generale del Quirinale Ugo Zampetti che ha attraversato da vertice burocratico della Camera tutte le stagioni della Seconda Repubblica, da Luciano Violante a Pier Ferdinando Casini, da Fausto Bertinotti a Gianfranco Fini, fino ad arrivare a Laura Boldrini. Ma il suo vero punto di riferimento, si è scoperto ora, era Mattarella, con cui la frequentazione nel corso degli anni si è allargata alle famiglie, alle messe domenicali. Da lui passano i provvedimenti, le leggi, i decreti, le nomine. Il consigliere politico, «l’anziano», lo chiamano gli altri dello staff, è Gianfranco Astori, 68 anni, nome sempre più ricorrente nelle conversazioni romane. Mai citato nelle cronache, eppure attivissimo. Molto più di un addetto all’informazione, come appare nell’organigramma del Quirinale, Astori è un politico di lungo corso, tre legislature alle spalle nella Dc, sottosegretario negli ultimi governi Andreotti, a lungo direttore dell’agenzia Asca.

È lui il tramite del presidente con i partiti, con Palazzo Chigi. «Il Mattarella che parla», lo definiscono nei ministeri. Pochi amici fidati, tra questi il consigliere di amministrazione Rai Franco Siddi, una rete di contatti infinita, un rapporto in crescita con alcuni ministri, in particolare Graziano Delrio. Il direttore della segreteria è Simone Guerrini, che fu leader dei giovani democristiani alla fine degli anni Ottanta e faceva parte di diritto della direzione Dc in piazza del Gesù, accanto a Fanfani, Forlani, De Mita e altri mostri sacri. L’unico della sua generazione a non entrare in politica, dopo una sfortunata esperienza elettorale nel 1992, una vita in azienda (Finmeccanica, Alenia), ma il filo con Mattarella non si è mai interrotto, né quello con i suoi coetanei: Enrico Letta, il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini. Chiudono la squadra più stretta il portavoce Giovanni Grasso e il consigliere Daniele Cabras. 

Uomini che si conoscono da sempre, tenuti insieme dalla stessa cultura politica, il cattolicesimo democratico, corrente di minoranza nella Democrazia cristiana, come lo erano i miglioristi di Napolitano nel Pci. Con un punto in comune, le istituzioni vengono prima del partito, e una differenza rilevante. Per Napolitano, discepolo di Giorgio Amendola, cresciuto nel Pci togliattiano, la politica è rapporto di forza, un processo guidato dall’alto da personalità illuminate. Per Mattarella, invece, la politica ha il compito di ascoltare, accogliere, rappresentare le istanze della società che non sono il prodotto di un laboratorio di Palazzo. Lezione tanto più utile in epoca di anti-politica e di rivolta dei cittadini contro le élite. Una scuola di potere, anche: il mite Mattarella ha frequentato ministeri, governi, la Corte costituzionale, conosce bene le regole, gli equilibri, le compatibilità. Il tempo per parlare e ancor più quello per tacere. E in questi primi venti mesi si sono riversate su di lui le stesse accuse che piovevano addosso a Moro: sa e non fa, ascolta e non interviene, «secoli di scirocco sono nel suo sguardo», scriveva dello statista pugliese Leonardo Sciascia e si potrebbe dire anche di Mattarella. «Sciocchezze», reagisce chi lo conosce bene. «Voi giornalisti lo raccontate sempre in grigio. E invece Sergio è sempre stato a colori. Lo scoprirete».

In questa ripresa già autunnale sono altri a presentarsi appassiti. Il Movimento 5 Stelle, segnalato da tutti i sondaggi come il principale candidato alla vittoria nelle prossime elezioni politiche, sta clamorosamente fallendo la sua prova di governo nella capitale d’Italia ed è costretto a uno spericolato cambio di pelle, non è detto che l’operazione riesca o che sia apprezzata: si aprirebbe a quel punto un vuoto, una voragine al centro dell’elettorato italiano. Renzi ha già cominciato da qualche settimana la sua metamorfosi, personale e politica: da rottamatore, uomo al comando solo contro tutti, a ricucitore di alleanze, con la minoranza del Pd, il sindacato rosso, un pezzo della sinistra. Ma c’è da nutrire qualche dubbio sulla riuscita della svolta: un Renzi normalizzato è in grado di vincere il referendum, ma è in calo di consensi e la mossa potrebbe apparire tattica e forse tardiva. Il centro-destra è un cantiere confuso e diviso tra l’aspirante leader Stefano Parisi, la vecchia guardia di Forza Italia che lo rigetta, i lepenisti della Lega di Matteo Salvini e i governativi di Roberto Maroni. In ognuna di queste divisioni si insinua come una polverina sottile l’influenza del Quirinale. La mano di Mattarella si vede nel cambiamento di passo di Renzi. Durante il viaggio a Brescia i sindaci salviniani hanno disertato, ma il governatore Maroni era in prima fila ad applaudire. E Virginia Raggi ha cominciato a farsi vedere nei corridoi del Quirinale.

Tre mesi ad alta intensità, da qui al voto referendario. In bilico tra la dissoluzione del sistema e la sua rinascita. Il primo banco di prova sarà la sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale Italicum. Nei piani di Renzi doveva essere il traino per entrare nella Terza Repubblica, fondata sui governi di legislatura e su maggioranze scelte dagli elettori la sera del voto, ma ora il premier si dice disposto a cambiare. E se la Consulta dovesse modificare la legge in profondità l’unica strada sarebbe tornare alla legge elettorale del 1993, il Mattarellum, firmata dall’attuale capo dello Stato, da cui partì la Seconda Repubblica dopo un altro referendum (quello di Mario Segni). Da Mattarellum a Mattarellum, l’evoluzione del sistema può sembrare un passo all’indietro solo ai più distratti, in realtà è un ritorno al futuro, quando tutte le alternative si sono rivelate senza spessore. Imprevedibile che sia Mattarella oggi, più di Renzi o di Grillo o di Salvini o di Berlusconi, a diventare il traghettatore della nuova transizione. Il presidente che in caso di vittoria del Sì dovrà gestire una trasformazione istituzionale senza precedenti, con la Costituzione cambiata in oltre quaranta articoli. E in caso di vittoria del No il flop di Renzi, dovrà affrontare la crisi di governo, la legge elettorale da riscrivere in un Parlamento impazzito. In ogni caso, l’uomo dell’anno Zero della Repubblica. E guai a chi scambia la mitezza per arrendevolezza.