
Parole che Matteo Renzi potrebbe sottoscrivere dieci, cento, mille volte, tanto somigliano alle sue. Ma che invece ha evitato di leggere dal palco della festa dell’Unità di Catania, pur avendo citato il testo che le racchiude: “Un paese normale”, Mondadori edizioni, autore Massimo D’Alema. Era il 1995, quando l’attuale premier aveva vent’anni. Nella quarta di copertina, nella foto di Gerald Bruneau, l’allora segretario del Pds appariva come un quarantenne sorridente, folti capelli neri, in camicia e cravatta, senza giacca. Il ritratto di un leader giovane, appagato di sé e del proprio carisma, lanciato alla conquista del potere. In tutto simile al suo rivale di oggi. Venti anni fa D’Alema era quel che Renzi è oggi: la guida del principale partito della sinistra che sognava di riformare la politica e le istituzioni. Ed è forse qui il segreto dello scontro che divide i duellanti. E la traccia di quello che succederà nelle prossime settimane.
Si legge Costituzione, l’oggetto del contendere è il sì o il no al prossimo referendum, ma la vera posta in gioco non è come saranno nominati i futuri senatori o l’eliminazione del Cnel. Attorno al voto si riscrivono i rapporti di forza nella sinistra e all’interno del Pd. Il fronte del No, finora dato leggermente in vantaggio nei sondaggi, non aveva una leadership. Il primo e unico premier della storia repubblicana iscritto al partito comunista ha visto il vuoto e lo ha colmato.
Ma per paradosso il più felice è il rivale Renzi. Perché l’ex capo della Quercia è il nemico perfetto per ritornare allo schema che il premier ritiene a lui più congeniale, appannato da due anni di governo: il nuovo contro il vecchio, il futuro contro il passato. Due nemici che hanno l’interesse comune a tenersi su a vicenda. Mettendo in grave imbarazzo la minoranza interna del Pd, rappresentata dal terzo incomodo, Pier Luigi Bersani. Stritolato tra il sì (Renzi) e il no (D’Alema). Senza margini di manovra. Spinto di qua o di là per riaffermare la propria esistenza.
E dire che Bersani avrebbe qualche motivo di soddisfazione: l’Italicum, su cui un anno e mezzo fa strappò dal governo e dal partito, è ora contestato da tutti. L’ex presidente Giorgio Napolitano, uno dei principali sponsor della legge, consiglia ora di riprendere a discutere partendo dalla proposta di Roberto Speranza (un Mattarellum corretto, con i collegi uninominali e un premio per chi prende più seggi), il bersaniano che si dimise da capogruppo del Pd alla Camera in dissenso da Renzi. E la base dimostra ancora di apprezzare l’ex segretario: c’erano un migliaio di militanti ad ascoltarlo fino a mezzanotte alla festa dell’Unità di Bologna. La più inclusiva, accogliente modello emiliano, quella che ha offerto un banchetto ai partigiani dell’Anpi schierati per il no e il palco per il confronto tra Renzi e il presidente dell’associazione Carlo Smuraglia. Con Bersani che raccontava ai compagni le dimensioni della festa nazionale di Catania: «Vedete quel tendone? L’hanno tagliato per quattro e ci hanno fatto gli stand. La festa era tutta lì...».
Il sentiero di Bersani, però, è strettissimo. Ostacolato da un lato da Renzi, puramente tattica la sua dichiarazione di disponibilità a rivedere la legge elettorale prima del voto referendario, e dall’altra da D’Alema. La storia non raccontata degli ultimi anni a sinistra è la sorda lotta tra il capo storico dei Ds e l’ex ministro emiliano.
Tutta giocata sul rapporto con Renzi. Nel 2012 Bersani e il sindaco di Firenze si contendono alle primarie la candidatura a premier del centrosinistra. D’Alema rischia di essere per Renzi un alleato formidabile, un testimonial perfetto per la campagna sulla rottamazione. Bersani capisce che con il predecessore in campo potrebbe perdere e lo convince a ritirare la sua candidatura alla Camera, in diretta tv, da Lilli Gruber. A quel punto la propaganda renziana sul rinnovamento delle liste perde slancio. E D’Alema si aspetta di essere ricompensato per il sacrificio: Bersani vince le primarie contro Renzi, è il grande favorito per Palazzo Chigi, in vista per il capo che si è sacrificato in nome della vittoria della Ditta ci sono prestigiosi incarichi di governo, a partire dalla Farnesina, e il Quirinale.
Ma il rapporto personale tra Bersani e D’Alema è incrinato. A farne le spese, un mese prima del voto del febbraio 2013, è il consigliere di Bersani, lo storico Miguel Gotor, oggi senatore, durante la presentazione del libro dell’ex premier “Controcorrente”. Per l’occasione nei musei capitolini D’Alema mobilita tutte le truppe su cui può contare.
In prima fila c’è un terzetto sorprendente, la sintesi del rapporto dalemiano con un establishment lontano dalla sinistra: Gianni Letta, Cesare Geronzi, Gianni De Gennaro. La serata scivola via finché non interviene Gotor, così celebrativo con il vecchio capo da sfiorare la liquidazione. Quando tocca a lui parlare D’Alema replica infastidito: «Vorrei rassicurare Gotor: questo non è un libro di memorie, ma di battaglia. E io non sono nella storia, sono nella cronaca».
Dopo la non-vittoria di Bersani svanisce la prospettiva di un posto nel governo. E anche la candidatura dalemiana al Quirinale svanisce. Nella sala del teatro Capranica sono pronte quattrocento schede per votare il nome del candidato del Pd: Romano Prodi o D’Alema. Il primo a intervenire è Bersani, dice: «io propendo per Prodi...», le prime file si alzano in piedi per applaudire, le schede restano negli scatoloni. E il pomeriggio i 101 franchi tiratori eliminano dalla corsa il Professore che intanto ha già ricevuto al telefono il pronostico di Massimo: «La tua candidatura è nata male...».
Il secondo passaggio, un anno dopo, quando Renzi eletto segretario del Pd accelera la fine del governo di Enrico Letta. Bersani non c’è, è fuori combattimento per la delicata operazione chirurgica. Nella direzione del Pd parla a nome della minoranza Gianni Cuperlo, il più vicino a D’Alema, chiede che Renzi prenda un’iniziativa sul governo. Di fatto, il via libera alla defenestrazione di Letta. Un mese dopo D’Alema invita il neo-premier alla presentazione del suo ultimo libro sull’Europa. Grandi sorrisi, Massimo regala a Matteo la maglietta di Totti, come dire gli affetti più cari, Renzi rassicura: «Per la candidature al Parlamento europeo sceglieremo la novità, per i posti in commissione Ue l’esperienza». Sembra una promessa, invece dopo il quaranta per cento alle elezioni europee Renzi stacca le comunicazioni e nomina Federica Mogherini.
Una lunga storia d’amore e di inimicizia. Troppo uguali, D’Alema e Renzi, per non temersi. Stessa concezione della politica e del potere, stessa idea dell’amico e del nemico, stessa spregiudicatezza tattica. Non per caso oggi tutti i fedelissimi dalemiani sono pasdaran renziani: Claudio Velardi, Fabrizio Rondolino, Massimo Micucci, Nicola Latorre, Andrea Romano. E l’ex assistente è il presidente del Pd Matteo Orfini. Tutti uniti nel prendere le distanze dall’antico capo. Mentre l’ex lider maximo vive, a 67 anni, il trauma di essere per la prima volta in minoranza, «anche se in realtà lo è stato quasi sempre nel Pci: gli altri preparavano le svolte, lui li seguiva e poi se ne assumeva il merito», spiega chi lo conosce bene. «Con Renzi questo gioco non gli è riuscito». Gioca da battitore libero, gira le feste e le piazze, il confronto romano con Roberto Giachetti è stato atteso come una finale di Champions League, cita inconsciamente il Nanni Moretti dei girotondi che volevano mandarlo a casa già nel 2002 («Non perdiamoci di vista»). «Non lo dirà mai, ma questa battaglia sul referendum è il suo modo di chiedere scusa al Paese per i tanti errori degli anni passati», osserva Pippo Civati, che in questi mesi è diventato a sorpresa interlocutore abituale.
Un capovolgimento delle parti. Un ribaltone. Renzi gioca il big match del referendum nel segno della stabilità e della governabilità, incassa l’appoggio degli Usa e un invito a cena di Barack Obama, il tifo delle agenzie finanziarie, ma anche la gaffe dell’ambasciatore statunitense in Italia John R. Phillips che ha parlato di investimenti stranieri da ritirare in caso di vittoria del No. D’Alema, al contrario, ostenta la povertà di mezzi, l’uscita dal Palazzo, il ricorso alla mitica società civile che anni fa, nel discorso di Gargonza (1997) con cui rase al suolo l’Ulivo di Prodi, considerava l’anticamera della dittatura: «Considero superficiale l’idea di mettere i comitati al posto dei partiti. Io non conosco questa cosa, questa politica che viene fatta dai cittadini e non dalla politica... L’idea che si possa eliminare la politica per restituirla tout court ai cittadini è un mito estremista che ha prodotto o dittature sanguinarie o Berlusconi e i comitati sono un sottoprodotto rispetto a queste due tragedie».
Tutto passato. Il nuovo D’Alema ha appena fondato il comitato del No, presidente l’avvocato e ex senatore della Quercia Guido Calvi. Si chiama #scelgoNo, con tanto di hashtag. Il coordinatore è Stefano Schwarz, piemontese di 33 anni (andava a scuola quando D’Alema comandava e governava), funzionario Onu precario con alle spalle missioni in Laos e Filippine, ex tesserato del Pd, con una breve ma significativa esperienza politica alle spalle. Nel 2009 partecipa al cosiddetto Lingotto 2, il raduno dei giovani rinnovatori del Pd organizzato da Civati, da cui nasce la candidatura alla segreteria di Ignazio Marino: Schwarz è il coordinatore della mozione Marino in Piemonte. Un anno dopo, nel 2010, partecipa alla prima edizione del raduno alla stazione Leopolda, embrione del renzismo nascente con la parola d’ordine della rottamazione già sbandierata, a fianco di Renzi sul palco c’è Civati, per la prima e ultima volta.
Scatenare un giovane leopoldino della prima ora contro la riforma di Renzi e di Maria Elena Boschi è la malizia finale del vecchio leader. Scavalcare il premier rottamatore nel nuovismo. E tutti gli schemi tradizionali. Il comitato della società civile contro l’apparato del partito. Il Davide del No contro il Golia del Sì, leggi consulenti americani (Jim Messina), poteri forti, ambasciate straniere. La reincarnazione di D’Alema è il rovesciamento di tutti i dogmi dei venti anni precedenti, ma è solo l’anticipo della guerra futura. Una struttura che non sarà smantellata all’indomani del referendum. Perché in caso di vittoria del Sì la scissione del Pd diventerà ancora più probabile: sarà difficile tenere insieme il PdR (il Pd di Renzi) trionfante e la sinistra interna sconfitta. E in caso di vittoria del No, D’Alema sarà in prima linea a chiedere un nuovo governo e un congresso del Pd. «Possiamo riprenderci il partito», ripete. Ma se l’operazione dovesse fallire diventerebbe inevitabile cercare fortuna fuori dal Pd. Per rimettere insieme i cocci di una sinistra divisa: per un D’Alema che si batte per il No, un Bersani che annuncia il suo voto contrario e il giorno dopo è più possibilista, c’è un uomo esterno al Pd come Giuliano Pisapia che medita di annunciare in pubblico il suo Sì al referendum. Alla fine, sul ring, resteranno solo loro due, Matteo e Massimo, così lontani e così vicini da rispecchiarsi. E chissà mai se troveranno l’occasione di un confronto in tv, stile Foreman-Muhammad Ali. Fuori i secondi.