«Populisti sono sempre gli altri», dice il sociologo Zygmunt Bauman, e questo è vero ovunque ma ancora di più nella liquidissima politica italiana. Dove tratti di populismo sono trasversalmente attribuibili a politici di ogni parte: non solo Beppe Grillo e Matteo Salvini - i due più frequentemente accostati al termine - ma anche Silvio Berlusconi («meno tasse per tutti», «abolirò il bollo auto» fino al mitico «sconfiggeremo il cancro entro tre anni») e Matteo Renzi («La mia scorta sarà la gente», «venderò le auto blu su eBay», fino al classicissimo «rottamiamo la vecchia politica»).
Questione scivolosa, quindi, il populismo in Italia, almeno se come tale s’intende un approccio comunicativo verso il popolo con il quale i leader politici vanno in cerca di consenso facile ed emotivo, solleticando la pancia dei cittadini-elettori e dicendo alla “gente” ciò che questa vuole sentirsi dire, a dispetto dei fatti.
Ma ancora più complicata diventa, la vicenda, se invece per “populismo” s’intende la canalizzazione della macrotendenza di questi anni tanto in Europa quanto negli Stati Uniti: quella che vede l’ex ceto medio impoverito allontanarsi dai partiti votati per mezzo secolo (centrodestra e centrosinistra) e ribellarsi a chiunque sia visto come espressione dell’establishment, delle “élite”.
Già, perché all’estero la declinazione di questa rivolta avviene attraverso partiti o leader magari eterodossi ma palesemente di una parte: di destra (Trump, Le Pen, Farage, Orban, ora Hofer in Austria e Frauke Petry in Germania) o di sinistra (Syriza, Podemos, Corbyn, Sanders, ora Razem in Polonia e i Pirati in Islanda). In Italia invece il dissenso di massa verso il sistema è canalizzato in modo preponderante dal Movimento 5 Stelle, che si autodefinisce “né di destra né di sinistra” e ha esponenti provenienti da entrambe le parti, così come da entrambe le parti arrivano i consensi nelle urne.
Questa ambivalenza tutta italiana del M5S viene variamente interpretata: secondo Grillo, se non ci fosse il Movimento avremmo «anche qui i fascisti e i nazisti al 30 per cento»; secondo Wu Ming, al contrario, in questo modo il M5S finisce per fare «da tappo» a una autentica conflittualità sociale e «occupa uno spazio vuoto per mantenerlo vuoto». Entrambe le tesi mancano di controprova, finché i Cinque Stelle esistono e costituiscono il primo o il secondo partito: non si sa cioè dove si canalizzerebbe, in loro assenza, la contrapposizione di massa verso l’establishment.
Gli aspiranti non mancano, s’intende: a destra (soprattutto Salvini, come ovvio) così come a sinistra (il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, che lavora sotto traccia per un nuovo movimento insieme alla “rete delle città ribelli” e all’ex ministro greco Yanis Varoufakis). Ma si tratta, almeno per ora, di pretendenti con l’handicap: Salvini sconta il peccato originale di esistere solo in quella Padania di cui la Lega è stata vessillifera, De Magistris paga l’autoreferenzialità della sinistra radicale nostrana e la sua tendenza a rinchiudersi in una nicchia litigiosa fuori dal mondo.
In Italia resta quindi soprattutto il M5S a interpretare il “dissenso populista” verso l’establishment, quel fenomeno che l’ex presidente Napolitano definisce sprezzantemente «furia iconoclasta» e che tuttavia ha teorici d’indubbia statura intellettuale (da Ernesto Laclau a Chantal Mouffe, ma qualcuno ne ritrova le radici perfino in Gramsci).
Per paradosso, tuttavia, quella che sul breve è la forza del M5S (cioè l’ambivalenza destra-sinistra e il suo pescare in entrambi gli elettorati) sul lungo potrebbe costituire la sua maggiore difficoltà, anche rispetto agli altri “movimenti anti-sistema” europei.
Sul lungo, cioè a mano a mano che il Movimento stesso si fa governo ed è quindi costretto a compiere scelte che lo definiscono politicamente, culturalmente ed economicamente, oltre la facile contrapposizione all’establishment. Sarà quella, se verrà, la vera prova del fuoco dei Cinque stelle, assai più complessa e delicata di un assessorato a Roma.