Sono passati quasi 20 anni dall’ultima volta che l’aumento del Prodotto interno lordo (Pil) dell’Italia arrivò a sfiorare la soglia del 3 per cento nell’arco di 12 mesi. Era il 2000 ed era tutto un altro mondo. La fiducia nelle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione era al suo massimo. Nessuno immaginava che di lì a qualche mese un pugno di terroristi avrebbe abbattuto le Torri Gemelle, mentre l’espansione della bolla finanziaria, già innescata dalla rivoluzione della cosiddetta New Economy, prometteva più soldi per tutti. Un’età dell’oro, insomma. Ecco, il ministro Paolo Savona è convinto che quel passato ormai remoto possa tornare. Pensa che l’Italia sia in grado di riprendere a correre alla stessa velocità del 2000, quando la crescita del Pil toccò il 2,9 per cento, un risultato mai più raggiunto da allora.
«Si può fare», ripete Savona sui giornali, in tv e in pubbliche conferenze ormai da quattro mesi. Da quando l’accademico di lungo corso, 82 anni compiuti il 6 ottobre, allievo del premio Nobel Franco Modigliani e collaboratore di Guido Carli, si è insediato al vertice del dipartimento per gli Affari europei. Una posizione defilata, ma solo in apparenza, perché lo studioso prediletto da sovranisti ed eurofobici ha scavato una trincea da cui prosegue la sua personale battaglia per liberare l’Italia dalle catene imposte da Bruxelles.
L’esecutivo gialloverde finisce quindi per suonare spesso su un doppio spartito. Mentre il ministro dell’Economia, Giovanni Tria tenta di ridurre al minimo i danni collaterali dello scontro con la Ue, il suo collega Savona puntualizza, argomenta e interpreta a modo suo il contenuto del contratto di governo tra Cinque stelle e Lega.
La contrapposizione, e anche la confusione, ha raggiunto il massimo nei giorni convulsi dei proclami sull’abolizione della povertà (copyright Luigi Di Maio) e dell’annunciata manovra finanziaria con deficit al 2,4 per cento. L’Europa chiedeva spiegazioni a Tria, senza ricevere risposte chiare. In compenso, nelle stesse ore, erano le opinioni di un altro rappresentante del governo di Roma a disegnare scenari futuribili sul futuro dell’economia italiana.
C’è del metodo in queste sortite verbali. Difficile accostarle, per esempio, alle uscite di un gaffeur seriale come l’inesperto Danilo Toninelli. Savona è uomo di mondo e di grande esperienza. Per decenni il suo nome è stato parte integrante dell’organigramma di quella classe dirigente nazionale che i Cinque stelle amano liquidare come casta. Fino a una dozzina di anni fa, l’economista con cattedra alla Luiss, l’università di Confindustria, era tra gli amministratori di grandi istituzioni finanziarie come Capitalia, a fianco di un banchiere di stretta osservanza berlusconiana come Cesare Geronzi. E anche un colosso delle costruzioni del calibro di Impregilo, che all’epoca dipendeva dalla holding Gemina della famiglia Romiti, aveva cooptato il cattedratico nel proprio board tra il 2000 e il 2005. In quegli stessi anni, il futuro ministro gialloverde era anche consigliere della Rcs-Corriere della sera, editore del primo quotidiano nazionale a quei tempi controllato e gestito dal cosiddetto salotto buono della finanza nazionale.
Esaurita la fase dell’impegno in prima linea tra banche, finanza e industria, Savona ha sposato la causa noeuro, trasformandosi in un punto di riferimento intellettuale per quell’area politica trasversale tra Lega e Cinque stelle che vede nella moneta unica la causa di tutti i mali italiani. Non sorprende, allora, la presenza del ministro tra i dirigenti di Asimmetrie, un centro studi che ha conquistato postazioni di rilievo dopo la svolta politica del 4 marzo. Presidente, nonché principale animatore dell’associazione, è il leghista Alberto Bagnai, il professore universitario che è passato dalle campagne noeuro a un seggio in Senato, dove ora guida la commissione Bilancio. Il vice di Bagnai è Marcello Foa, il giornalista imposto da Matteo Salvini alla presidenza della Rai. Tra i 18 componenti del comitato scientifico di Asimmetrie troviamo, oltre a Savona e al suo amico Giorgio La Malfa, anche un altro esponente del governo gialloverde come Luciano Barra Caracciolo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle politiche comunitarie, insieme al deputato Claudio Borghi, leghista noeuro che presiede la commissione Bilancio della Camera. Lo stesso Borghi che martedì 2 ottobre, nel pieno di una nuova tempesta finanziaria sui Btp, non ha trovato di meglio che affermare che solo con una moneta sovrana l’Italia potrà risolvere i suoi problemi.
Il medesimo concetto è stato ribadito in molte occasioni, con toni più sfumati e una migliore scelta di tempo, anche da Savona. Il quale, una volta entrato al governo, pur rinunciando alla poltrona dell’Economia a cui puntava, non ha deviato di un millimetro dalla linea illustrata infinite volte in scritti e conferenze. Sono i trattati europei a impedire la crescita dell’Italia. Sono i vincoli imposti dai poteri forti continentali, cioè la Germania, a ingabbiare il potenziale industriale del nostro Paese. Date queste premesse, la Missione, con la M maiuscola, del governo è chiara: bisogna recuperare la sovranità perduta per impostare su schemi del tutto nuovi la politica economica. Quali schemi? Uno solo, elementare: massicce dosi di spesa pubblica per rilanciare il Pil.
Nell’immediato, quindi, è indispensabile finanziare gli investimenti aumentando il deficit dello Stato. E poco importa se vengono travolti i paletti fissati dall’Unione Europea e violati gli accordi con Bruxelles sottoscritti dai precedenti governi con l’obiettivo di dare un taglio al gigantesco debito pubblico di Roma. Niente paura, sostiene Savona e chi la pensa come lui, perchè alla fine tutto si aggiusta. È una questione di moltiplicatore, per dirla nel gergo degli economisti. Nel senso che la spesa aggiuntiva genera una crescita proporzionalmente ben maggiore e quindi anche il rapporto tra debito e Pil finisce per diminuire grazie all’impennata di quest’ultimo.
Lo schema appena descritto trova molti sostenitori tra gli studiosi che dicono di richiamarsi agli insegnamenti di John Maynard Keynes, ma senza addentrarci in dispute accademiche, restano da risolvere un paio di questioni pratiche. A quanto ammonta la dose minima di spesa che innesca il meccanismo virtuoso? E inoltre, domanda decisiva, come trovare i soldi necessari alla manovra senza schiantare il bilancio pubblico e mandare alle stelle gli interessi da pagare sui nostri titoli di stato? Nei giorni scorsi, intervistato dal Sole 24Ore, Tria è sembrato alludere, come ha rilevato l’economista Mario Seminerio nel suo blog, a una quantità minima, quasi omeopatica, di investimenti pubblici supplementari, pari allo 0,2 per cento del Pil, cioè 3,5 miliardi di euro. Grazie a questa iniezione di denaro, il Pil nel 2019 dovrebbe aumentare fino all’1,6 per cento. Non è granché in termini assoluti, ma è comunque lo 0,6 per cento in più rispetto a quell’1 per cento su cui si orientano le previsioni di crescita dei maggiori centri di ricerca. In altre parole, nel futuro immaginato pur tra molte cautele da Tria il moltiplicatore è pari a tre: lo 0,2 per cento di investimenti produce un aumento del Pil dello 0,6 per cento.
Savona invece punta direttamente al bersaglio grosso. Secondo lui, come ha messo nero su bianco più di una volta, una crescita dell’1 per cento o poco di più è del tutto insufficiente per creare nuova occupazione. Il ministro per gli Affari europei sostiene che la soglia minima da raggiungere per dare una svolta all’economia nazionale non è inferiore al 3 per cento. E allora che si fa? Risposta: si pompano 50 miliardi di nuovi investimenti nel motore del Pil, che così sarà in grado di ripartire a tutta velocità.
La somma da mettere in gioco appare a prima vista astronomica, ma non abbastanza da scoraggiare Savona. «I soldi ci sono», dice, perchè l’Italia ha un surplus di bilancia di pagamenti che aggira proprio attorno a 50 miliardi. Tutto denaro che, secondo questa interpretazione, sarebbe «risparmio in eccesso degli italiani» e va rimesso in circolo al più presto. Il problema, come hanno segnalato numerosi economisti, è riuscire a rendere disponibile questo presunto «risparmio in eccesso» e utilizzarlo per finanziare il maxi piano di investimenti. Dal ministro, che ha ribadito le sue posizioni anche in una recente intervista televisiva (23 settembre nel programma “Mezz’ora in più” di Lucia Annunziata), non sono arrivate spiegazioni in materia.
Savona ha invece espresso quelli che suonano come semplici auspici. Occorre «riavviare il motore delle costruzioni», ha scritto in una fluviale lettera pubblicata dal Fatto Quotidiano il 30 settembre. Come dargli torto? Grandi gruppi del settore come Astaldi o Condotte versano in grave crisi anche a causa delle pastoie burocratiche che rallentano gli investimenti pubblici. Il governo ha promesso interventi, ma è difficile essere ottimisti se il problema verrà gestito con la stessa esasperante lentezza dimostrata nella vicenda del viadotto Morandi a Genova.
Savona però ha detto anche altro. Risorse pari a circa mezzo punto percentuale di Pil, cioè oltre 8 miliardi di euro, dovrebbe essere mobilitate in gran fretta, entro il 2019, da «grossi centri produttivi di diritto privato dove lo Stato ha importanti partecipazioni». Dietro questa definizione piuttosto criptica sembra legittmo identificare grandi gruppi come Eni, Enel e Terna, in cui l’azionista pubblico ha il ruolo di socio di riferimento. In altre parole queste aziende, che sono quotate in Borsa e sono sottoposte a rigide regole di governance, dovrebbero cambiare a gran velocità i loro piani d’investimento per mettersi al servizio del governo.
La manovra appare quantomeno complessa, tanto più per società, è il caso soprattutto di Eni, che hanno una fortissima esposizione internazionale, per via dei mercati in cui sono impegnate e per la presenza nell’azionariato di un gran numero di soci stranieri. Come reagirebbero questi ultimi, se davvero una multinazionale tricolore rinunciasse a occasioni d’investimento all’estero per correre in soccorso del governo di Roma? Il piano di Savona avrebbe forse avuto un senso trent’anni fa, all’epoca dell’industria pubblica guidata dalla politica attraverso il sistema delle partecipazioni statali. Ai giorni nostri invece questo esercizio verbale di sovranismo economico sembra destinato a perdersi nel vuoto.
Parole, solo parole, che però hanno l’effetto concreto di aumentare il senso di smarrimento con cui i mercati internazionali accolgono le inziative a volte confuse se non contraddittorie tra loro dei ministri gialloverdi. Nell’immediato, il conto pagare si traduce in punti di spread, cioè maggiori interessi per miliardi a carico delle casse pubbliche. È questo, per ora, l’unico moltiplicatore che funziona. Con buona pace di Keynes. E anche di Savona.