Leghisti e fascisti, populisti e razzisti hanno saputo trasformare l’ansia collettiva degli strati più deboli della popolazione in una risorsa elettorale
L’interrogativo echeggiato tante volte in questi giorni - Macerata è una città razzista? - è decisamente fesso. Intanto perché contiene una tonalità ?e una tentazione razzista già nell’enunciato. Infatti, definire con quell’etichetta una città o, tanto più, una nazione o comunque un gruppo sociale o una categoria professionale, è di per sé un’operazione discriminatoria.
E ciò perché assume un soggetto come un blocco unico e unitario e, di conseguenza, qualifica ?un insieme di individui attraverso un giudizio generale e generalizzante. Siamo esattamente alla radice primaria del razzismo, che opera attraverso quella sciagurata procedura di attribuzione a un’intera comunità (qualunque ne sia la dimensione) ?di un tratto proprio di uno o più elementi. In altre parole, è razzismo chiamare razzista Macerata o Abbiategrasso o Alghero o Cosenza, perché a Macerata, Abbiategrasso, Alghero, Cosenza - in Italia, in Polonia - si ritrova un certo numero di razzisti (magari anche tanti). È elementare, ma rifiutare quello stigma omologante è la prima operazione di verità da compiere.
La seconda è quella di chiarire come
non sia tutto razzismo quello che può apparire razzismo. Anche nelle analisi più sofisticate, la categoria di razzismo viene utilizzata quasi fosse sinonimo di pregiudizio o di xenofobia, secondo una sequenza discorsiva in genere casuale: odio, intolleranza, violenza, xenofobia, razzismo. E invece, mai come in questo caso, le parole vanno manovrate con ?la massima delicatezza e con la più callida saggezza. Proprio perché “razzista” è tutt’ora, nelle società democratiche, la più pesante espressione di riprovazione morale, quel termine va utilizzato con parsimonia, solo quando è strettamente motivato. In caso contrario, lo si banalizza, lo si depotenzia e, alla resa dei conti, se ne riduce l’efficacia di interdizione etica. Peggio: attribuendo con leggerezza quell’etichetta, si ha l’effetto di incattivire e radicalizzare nella propria diffidenza chi è mosso prevalentemente da un senso di inquietudine e da una condizione di smarrimento verso ciò che appare ignoto (una folla di stranieri senza nome e cognome, biografia, identità).
E, allora, va detto che, nella gran parte dei casi, quando si parla di razzismo, ci si trova, in realtà, davanti ?a fenomeni di xenofobia. Ovvero, alla lettera, di paura dello straniero. E oggi è esattamente questo il sentimento che si va diffondendo all’interno della nostra società, a Macerata come a Brescia (si veda l’articolo dell'Espresso su questa città), come in tante altre periferie italiane. Per un verso, la xenofobia corrisponde a un’antica pulsione, che trova le sue radici nei fondamenti antropologici e psicologici della personalità; per altro verso, la xenofobia risente in maniera sensibilissima dello stato di insicurezza prodotto dalla crisi economica.
È questo che induce irresistibilmente a cercare un capro espiatorio sul quale rovesciare le ansie collettive. Dal momento che il capro espiatorio ?non può essere individuato nel Fondo Monetario Internazionale o nella Banca Mondiale o in JP Morgan - soggetti troppo lontani e, alla lettera inconoscibili e inafferrabili - la ricerca del bersaglio tende a ritrarsi. Il nemico lo si trova lì, a portata di mano e - esso si - afferrabile: lo straniero. Il quale sembra riassumere tutte le insidie dell’insicurezza: anonimato, estraneità geografica e storica, alterità culturale. Tutto questo è razzismo? Certamente no. Tutto questo può dar luogo a forme di razzismo? Certamente sì. E ciò accade perché in quella dimensione ?di angoscia sociale e di inquietudine collettiva, in quello spazio di smarrimento e insicurezza, si gioca una partita mortale. Lì, finora, la buona politica non è intervenuta se non attraverso la retorica della solidarietà e l’ideologia dei buoni sentimenti.
Ma lì, esattamente lì - ecco il punto - da oltre un quarto di secolo interviene la cattiva politica. Quelli che, nei primissimi anni ‘90, definimmo “gli imprenditori politici dell’intolleranza”. Leghisti e fascisti, populisti e razzisti hanno saputo fare dell’ansia collettiva degli strati più deboli della popolazione, affaticati ?da una convivenza comunque difficile, una risorsa elettorale. Hanno trasferito nella sfera politico-istituzionale il panico morale di tanti cittadini, offrendo loro risposte ispirate da politiche di segregazione e discriminazione.
Se qualche decennio fa una frase tante volte ripetuta, doveva intendersi come l’omaggio rituale ai principi universali ?di uguaglianza (“Non sono razzista”), ai quali si intendeva derogare (“ma...”), oggi il suo significato risulta diverso. Oggi, quel “Non sono razzista, ma...” sembra esprimere, tra l’altro, una sorta di richiesta di soccorso: aiutatemi a non diventare razzista. Se questo è vero, dobbiamo essere consapevoli della drammaticità della situazione, ?dal momento che la xenofobia si va diffondendo: e, tuttavia, quel passaggio dalla xenofobia al razzismo, al quale lavorano alacremente leghisti e fascisti non è fatale né rapido. Mi sembra questo il solo, ancorché esile, motivo ?di prudentissimo ottimismo.
Ma se ?la xenofobia non verrà disinnescata, mediata e disincentivata attraverso politiche intelligenti e razionali, capaci di tutelare insieme gli interessi di residenti e immigrati, sarà inevitabile che il terrorismo razzista (così va definito quanto accaduto a Macerata) trovi consensi inconfessati e aspiranti emulatori, tacite adesioni e “volenterosi carnefici”.