«Luigi Di Maio è solo un ventriloquo: il M5S ha una costituzione autoritaria»
La situazione politica, le mosse di Mattarella, la crisi del Pd e il successo dei pentastellati. Intervista a tutto campo all'ex ministro socialista Rino Formica
di Susanna Turco
10 maggio 2018
Siamo al punto terminale di una crisi di sistema che ha radici antiche, che affondano nel 1978, risalgono al rapimento Moro, quando avvenne la prima frattura: quella di un sistema politico che non risponde più alla realtà di un Paese che aveva bisogno, già allora, di una profonda riforma. Una crisi presente e occultata da moltissimo tempo che Renzi, con la sua sfida per una riforma costituzionale, ha portato alla luce». Qui finiscono i meriti dell’ex premier, almeno per Rino Formica, 91 anni, pluriministro socialista e immortale inventore dei «nani e ballerine».
Dunque nulla c’entra, nel caos attuale, il 4 dicembre, la vittoria del no al referendum? «Il 4 dicembre è cominciata una grande crisi, sì: quella di Renzi, per colpa sua. Perché si è giocato la carta della riforma costituzionale non sulla base della crisi di sistema, ma su alcuni suoi aspetti formali, come la velocizzazione dei processi decisionali. Ha sprecato la mano».
Oggi a che punto siamo? «In uno stato confusionale: da una parte c’è la percezione che un mutamento di ordine deve avvenire, attraverso una profonda modifica del nostro assetto ed equilibrio costituzionale. Ci si illude che il tema sia la semplificazione: in realtà siamo di fronte al superamento dell’assetto fondato sulla sovranità del popolo, della nazione. Ma abbiamo un sistema politico che ha la forza di affrontare il tema di una siffatta revisione costituzionale?».
Ce l’abbiamo? «La parola che vedo in comune è la restaurazione. La rivoluzione per la restaurazione dei Cinque Stelle, che una impostazione ideologica vecchia di secoli, quella reazionaria della volontà generale di Rousseau. Dall’altra parte, con la destra di Salvini, abbiamo la restaurazione senza rivoluzione: è il dischiudersi del vecchio principio di sovranità. Insomma le due ideologie che dovrebbero entrare in alternativa sono il reazionarismo di Rousseau e il nazionalismo della chiusura delle frontiere. Se il nostro Paese dovesse stare in questa alternativa, si troverebbe di fronte allo sprofondare nei secoli passati».
Non siamo, già, in questa alternativa? «Per fortuna ci sono ancora degli anticorpi, per quanto frantumati. Oggi i partiti sono diventati dei luoghi di transito, delle strade. Quando Calenda entra e vuol uscire da un partito in 24 ore, significa che ciascuno deve regolare i conflitti per conto proprio. Ma quando la cultura politica è declassata a para-politico e i partiti diventano grandi serbatoi di bisogni individuali incomponibili, e di rancori comuni componibili, cioè quando ciò che è comune è il rancore, siamo all’anticamera delle guerre civili».
Quale è la leva da cui ripartire? «L’unico potere che ancora risponde alle esigenze nazionali e gode del rispetto internazionale è la presidenza della Repubblica. Ma quale potere ha un presidente che non dispone più di un partito forte alle spalle, e che quindi si trova a galleggiare su un sistema decomposto? Ha due poteri: il messaggio e lo scioglimento. Ma lo scioglimento non può usarlo nel pieno della decomposizione, perché accelererebbe il caos.
Resta dunque il messaggio. «Potrebbe affrontare, con un messaggio alle Camere, magari il 2 giugno, il problema del referto dello stato di salute della Repubblica, che ha bisogno di un anno/un anno e mezzo per una grande revisione dell’assetto istituzionale e costituzionale. Nel contempo, potrebbe dare l’incarico a una persona che possa formare un governo di decantazione per consentire la riflessione nell’intero schieramento. Non si tratta di fare un accordo fra i partiti, ma dare il tempo perché si svolgano le lotte interne, di cui già si sentono i rumori, per esempio in Forza Italia e Lega. Per non parlare dei Cinque stelle, nei quali lo scontro sarà alla fine risolto dall’algoritmo di Rousseau».
Ha per caso lasciato fuori il Pd? «È in un caos impressionante. Ormai si litiga addirittura sul fatto che la questione delle riforme dovesse essere posta nell’organo di partito e non fuori: ma scherziamo? Noi veniamo da organismi dove il dibattito era quotidiano. La questione è un’altra: Renzi ha chiesto un anno per avere il tempo di regolare i suoi conti, o per aprire un dialogo sul mutamento di ruolo del Pd nella crisi di sistema?».
Somiglia al Craxi della “Grande riforma”? «Allora c’era l’esatta percezione del mutamento del quadro internazionale, questa è una sollevazione di strapaese, è il contado che aggredisce la città, è dire: al centro vi è disordine, porteremo noi le nostre truppe, le nostre vacche, non so cosa. Purtroppo il renzismo non si è nutrito con la crescita di una nuova cultura politica. Ha lavorato sulla disgregazione: di gruppi dirigenti, politiche passate, culture di provenienza. Sulla atomizzazione dell’esistente per assidersi sulle rovine. Io so che la lotta politica serve a ridimensionare, ma non a distruggere. Il suo alla lunga diventa il comando del cimitero.
Nessuna somiglianza quindi con Craxi? «Forse nel vigore giovanile».
Salvini sarà il capo della nuova destra? «Sarà leader di una destra nazionalista, che noi chiamiamo giustamente di ispirazione fascista, anche se ovviamente non ha tutti i caratteri del fascismo. Loro sono per una partecipazione disciplinata. Lo si vede a livello locale. Una lega di buoni amministratori. Non grandi capi: bravi ragionieri».
E Berlusconi che fine farà? «Finirà per ripetere la vicenda della famiglia Le Pen. Il giovane Salvini a un certo momento lo considererà espulso dal partito perché obsoleto. Quello sarà il suo dramma».
Si può costituzionalizzare il Movimento Cinque stelle? «Il Movimento è inorganico al nostro sistema, perché è fondato su una idea della volontà generale regolata. Ha una sua ideologia, una sua costituzione autoritaria che è già realizzata nel modello con il quale hanno messo insieme i gruppi parlamentari. Gli eletti non contano niente, è scritto che il capo può essere sostituito dal supercapo. E questo è il loro modello costituzionale. Di Maio quando va in tv è un funzionario ventriloquo, con una doppia dipendenza: formale da Grillo, sostanziale da Casaleggio. Chiama alle elezioni anticipate, ma sembra uno che fischia forte nel bosco per darsi coraggio».
Mattarella rischia, in una situazione così complessa, di diventare il punto di crisi anziché la leva della soluzione? «Oggi ha due strade, legate alla interpretazione del suo ruolo istituzionale: è notaio o interventista? La Costituzione non prevede, se non come forzatura, che sia notaio. E la Costituzione materiale ha dilatato il suo potere, nel tempo. L’unica difficoltà è che oggi è più solo di prima: non ha robuste forze politiche alle sue spalle. È quindi giustamente cauto. Però, ogni giorno che passa, ci si convince che un aiuto dal sistema politico non l’avrà. E allora dovrà decidere se diventare interventista in una forma ancora più inedita, entrando in una fase che, dal punto di vista sostanziale e non formale, sia l’anticipazione del semipresidenzialismo».