Scompare la discussione, il confronto, la possibilità di scegliere tra due opinioni prima di farsi un’idea. C’è solo un vincitore e un vinto. E l’umiliazione, vera o presunta, dell’interlocutore, sta diventando l’unico obiettivo del discorso politico
Per tanto tempo l’asfalto è stato un emblema iconico del progresso, e in certi casi lo è ancora: una strada che passa dalla terra al bitume rappresenta spesso il passaggio dall’isolamento all’arrivo delle persone, e in alcuni casi dei capitali. Più di recente, il significato della parola ha perso il suo portato universalmente positivo: l’asfalto rimanda all’eccesso di auto, di camion, di inquinamento, di consumo di suolo, di grande opera non sempre utile.
Oggi l’asfalto conosce una nuova ondata di popolarità, e non è una buona notizia. In verità il sostantivo sta lasciando spazio, in quanto a frequenza di utilizzo, al verbo: si è passati dalle distese di asfalto del secondo dopoguerra agli abusi della parola “asfaltare” della presunta Terza Repubblica. Basta dare un’occhiata alla grande quantità di video su Youtube o di post su Facebook in cui la discussione politica è ridotta al titolo “X asfalta Y”: non c’è il confronto, la messa in evidenza di posizioni diverse, la possibilità di scegliere tra due opinioni prima di farsi un’idea. C’è solo un vincitore e un vinto, una lotta a somma a zero, un match di pugilato, e non un’occasione di arricchimento per gli elettori.
Questa febbre è ormai universale: il verbo “asfaltare” è usato dai giornalisti, dai politici e (tendenza ancor più grave) dalle frange più acritiche dei loro sostenitori. In alcuni casi - lo abbiamo visto di recente durante il dibattito tv tra Renzi e Salvini - c’è stata anche una specie di gara delle rispettive claque digitali a produrre il maggior numero di evidenze digitali al fine di dimostrare le capacità del proprio beniamino di asfaltare l’interlocutore. Se questa è la misura del successo, sarà inevitabile la china: l’avversario sarà sempre più percepito come un nemico, il diverso da sé sempre più come qualcuno da spingere in un angolo.
L’umiliazione, vera o presunta, dell’interlocutore, sta diventando davvero l’unico obiettivo del discorso politico? Il sospetto c’è, e non riguarda solo l’Italia. Nella puntata più riuscita di “The Politician”, serie da poco disponibile su Netflix, un giovane elettore indeciso si ritrova (letteralmente) in mezzo a una discussione feroce tra due candidati alla presidenza del comitato scolastico di un liceo californiano. Alla fine l’indeciso decide di non votare «perché tanto non cambia mai niente». Lo scambio di accuse tra politici inconcludenti non aiuta di certo a cambiare idea sull’inutilità della politica, la conta di quanti cazzotti sono arrivati al volto dell’avversario nemmeno. Forse l’asfalto è più utile a costruire strade che a distruggere ponti.