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Politica
novembre, 2019

Il massimalismo pop non ci porterà da nessuna parte

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C'è una differenza importante tra massimalismo e radicalismo. Il secondo, con la sua disponibilità a compromettersi con il potere, può essere un formidabile motore politico e aprire stagioni di governo. Il primo invece spesso finisce per essere il miglior alleato del conservatorismo

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Da qualche tempo, in giro per l’Europa e gli Stati Uniti, vari movimenti radicali animano a sinistra la battaglia politica e culturale. Peccato non ci sia qualche libro che li racconti tutti, cercando di individuare il loro minimo comune multiplo. Sono movimenti anti-sistema, perché contestano (con radicalità, appunto) l’alleanza tra il regime della rappresentanza democratica e l’economia di mercato. E tuttavia lo sono in maniera differente dai partiti anti-sistema del secolo scorso, per esempio i partiti comunisti, che avevano una proposta generale di riorganizzazione del tessuto giuridico e dei meccanismi di produzione economica dell’alleanza che contrastavano - che era poi sempre quella tra liberaldemocrazia e capitalismo.

I più recenti movimenti radicali, difatti, non avanzano un modello di governo nazionale e globale alternativo. Propongono aggiustamenti costituzionali, suggestioni ugualitarie, si richiamano talvolta all’urgenza delle tematiche ambientali. Manifestano insoddisfazione per la delega democratica, ma non puntano a superarla con qualcos’altro. Criticano il capitalismo, ma non additano a nuove forme di economia pianificata. Gonfiano le proprie vele col vento del populismo, che nei tempi che viviamo, si alza e si abbassa con inquietante irregolarità. E però non hanno mostrato, almeno finora, interesse a trasformare quel vento in energia che sappia alimentare ipotesi di governo.

Il movimento spagnolo Podemos è forse il caso più emblematico di questo fenomeno. Nato dai fermenti intellettuali e sociali dei primi anni del decennio che va concludendosi, Podemos si è subito imposto come una forma di radicalismo pop. Certo, il suo leader Pablo Iglesias ha avuto una gioventù comunista e odierne simpatie mai rinnegate per orrendi dittatori sudamericani. Ma ha anche scelto di guidare un movimento il cui nome echeggia espressamente uno slogan, “Yes we can”, che è il simbolo di un leader, Obama, alfiere dell’alleanza tra democrazia liberale ed economia di mercato che Podemos combatte.

Il radicalismo pop di Podemos (ben spiegato in un libro corale di cui Iglesias è coautore e curatore: “Ganar o morir. Lecciones politicas en Juego de Tronos”) chiede costantemente di più. Pur avendo uno statuto ideologico abbastanza sgangherato, ha in questi anni ostentato scarsa disponibilità ideologica a sintetizzare le proprie istanze con quelle di possibili alleati. Non avendo la forza di conquistare la maggioranza assoluta, come tutti i movimenti radical-pop che gli assomigliano, sembra quasi trovare gusto nel farsi dire di no dai propri possibili partner politici: è il caso del mancato accordo di governo coi Socialisti di Sanchez dei mesi scorsi.

Questa bizzarra pretesa radical-pop di Podemos di egemonizzare la proposta politica dell’alleanza coi Socialisti, avendo nondimeno un consenso minore di quello del Psoe, ha condotto in Spagna a nuove elezioni. Podemos ne è uscito ridimensionato e oggi tratta da una posizione di maggiore debolezza coi cugini riformisti del Psoe: un vero capolavoro. Ovvio che un radicalismo politico che non accetti di “ganar” la sfida del governo, finisce per “morir”, come è accaduto alle ultime elezioni per il rinnovo delle Cortes. E potrebbe avvenire in via definitiva se Podemos non riuscisse a chiudere un duraturo accordo di governo nelle prossime settimane.

Il radicalismo pop dei nostri tempi, che non accetta alleanze e sintesi di governo, somiglia terribilmente a una forma di massimalismo pop. E la differenza tra i due fenomeni non è molto diversa da quella che abbiamo conosciuto nel secolo scorso. Mentre il radicalismo ha in sé un’ansia positiva di cambiamento che desidera trasformare in esercizio del potere, trovando le necessarie alleanze, nel massimalismo quest’ansia è pressoché inesistente.

È tipico del massimalismo opporsi, difatti a ogni ipotesi di alleanza di governo. La battaglia dei massimalisti è freddamente identitaria: punta a ripetere e a riproporre ogni volta il proprio punto di vista, negando la possibilità di impegnarsi in alleanze con altri. Poco importa che sia un’identità spesso ribadita con buone capacità comunicative o capace di sfruttare i nuovi strumenti della rete meglio delle forze politiche tradizionali. Questa dimensione pop non rende il massimalismo meno dannoso. Anzi.

Il massimalismo è escludente. Prendiamo per esempi i movimenti, cugini di Podemos, della nuova sinistra americana: quei movimenti che hanno allargato lo spazio della rappresentanza politica a nuove minoranze desiderose di farsi sentire e valere. Sembravano inizialmente movimenti radicali, sul modello delle proteste degli anni ’60, che potevano guidare la democrazia americana in un tempo nuovo. Si stanno piuttosto rivelando movimenti schiettamente massimalisti, che non chiedono una nuova sintesi sociale e culturale di cui essere parte, ma pretendono di conquistare spazi sottraendoli ad altri.

Il sogno radicale di Martin Luther King ebbe successo perché dialogava e includeva. Non soltanto allargava il vecchio sogno americano alle minoranze nere; ma soprattutto vedeva nell’occasione di questo inclusivo allargamento, l’opportunità di salvare il tradizionale sogno americano che andava sbiadendosi, proprio perché odiosamente escludente verso i cittadini di colore. Era un “piccolo” sogno radicale che si metteva al servizio di una “grande” visione storica e s’incaricava di garantirle un futuro.

Per ottenere le leggi che scrissero la parola fine sull’apartheid legalizzato che vigeva negli Stati Uniti, il radicale reverendo King non esitò ad allearsi con un senatore texano diventato presidente dopo l’assassinio, avvenuto proprio in Texas, del suo predecessore. Altri leader massimalisti dei diritti civili non ottennero nulla con il loro estremismo ideologico, fuorché rallentare i processi di cambiamento che Martin Luther King e Lyndon Johnson avevano avviato.

La differenza tra massimalismo e radicalismo, pop o meno che siano, sta tutta qua. Il radicalismo, con la sua disponibilità ad allearsi coi più prossimi e a compromettersi con il potere, può essere un formidabile motore politico e aprire stagioni di governo. Può infondere di sé posizioni più moderate o gradualiste e caratterizzare intere fasi storiche. Il massimalismo è costitutivamente antigovernativo e finisce per essere, talvolta artatamente, il miglior alleato del conservatorismo.

Qualche tempo fa la governabilità andava di moda anche in Italia ed era la bussola di riferimento in ogni democrazia avanzata d’Occidente. Oggi questo “valore” non è più riconosciuto come tale. Una delle ragioni per cui la democrazia liberale perde colpi nella competizione globale è che le democrature e le nazioni totalitarie possono vantare maggiore stabilità al loro vertice e programmi di governo di lungo periodo. Ecco perché diventa essenziale recuperare il tema della governabilità come valore condiviso.

Il ritorno del massimalismo politico è una minaccia per la democrazia proprio perché complica maledettamente la possibilità di avere stabili stagioni di governo. Neutralizzarlo diventa così la precondizione per poter giocare la partita globale, nella quale sono i valori fondanti della democrazia liberale a rischiare di “morir” invece di “ganar”.

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