
Nel pomeriggio di una quieta domenica romana, Luciana Castellina, 90 anni appena compiuti, orgogliosamente comunista, candidata con la Lista Tsipras in Grecia alle ultime elezioni europee, nella penombra della sua bella e silenziosa casa nel quartiere Parioli, dove vive da sempre, con il piccolo cane Fefè accovacciato accanto a me, un bicchiere di vino bianco e qualche fetta di salame, ricorda i fatti che cinquant’anni fa portarono lei e un altro gruppo di pazzi a fondare la rivista “il manifesto” che ha segnato, comunque la si giudichi, la storia della sinistra e del giornalismo italiani. Del gruppo dei fondatori sono rimasti lei e Rossana Rossanda. Due straordinarie ragazze del secolo scorso, per citare il titolo dell’autobiografia di Rossana.
In quel fatale 1969 la scintilla che aveva dato vita al ’68, dalle università, dalle fabbriche, dalla Cecoslovacchia invasa dai carri armati sovietici, portò l’incendio nel cuore del più grande partito comunista dell’Occidente, aprendo una discussione non solo sulla necessità di rompere ogni legame con il regime sovietico, ma anche sui caratteri del capitalismo italiano e sulla strategia del partito comunista di fronte alle nuove lotte operaie e studentesche.Quella discussione era cominciata anni prima ed era culminata nell’11° congresso del Pci, nel 1966, con la sconfitta della sinistra ingraiana che si contrapponeva alla destra amendoliana. Attorno a Pietro Ingrao, che era stato uno dei giovani su cui Togliatti all’indomani della Resistenza si era poggiato per lanciare il partito nuovo emancipandolo dal controllo e dall’impostazione militarista dello stalinista Pietro Secchia, si aggrega un gruppo composito di dirigenti-intellettuali, di estrazione borghese, colti e cosmopoliti, molto critici, ma anche molto moderni.

Da Bruno Trentin, formazione azionista e leader dei metalmeccanici Fiom, a Rossana Rossanda, bellezza diafana e intelligenza raffinata, responsabile della commissione culturale, a Luigi Pintor, gigante del giornalismo, condirettore dell’Unità, ad Alfredo Reichlin, figlio di un avvocato pugliese, direttore dell’Unità, che era stato sposato con Luciana Castellina, giornalista militante, statuaria e conturbante, con la sua bellezza mediterranea, così diversa da quella Santa Maria Goretti che negli anni ’50 il giovane Enrico Berlinguer, segretario della Fgci, aveva indicato quale modello alle ragazze comuniste.
Luciana ora sta con Lucio Magri, ex-democristiano, una delle teste più raffinate del gruppo (tanto che nel 1962 Jean Paul Sartre, che dirige la rivista Les Temps Modernes, gli chiede di collaborare), bello come un divo del cinema, con i capelli precocemente imbiancati e gli occhi azzurrissimi. Poi c’è Valentino Parlato, giovane e brillante economista espulso dalla Libia dagli inglesi perché comunista, che lavora alla commissione economica con Giorgio Amendola. Ci sono anche leader meno giovani: Aldo Natoli, medico, leader dei comunisti romani, che denuncia gli scandali della capitale e ispira l’inchiesta de L’Espresso “Capitale Corrotta, Nazione Infetta” e Massimo Caprara, napoletano, già segretario personale del Migliore, come nel Pci veniva chiamato Togliatti.
«Dopo il congresso», racconta Luciana Castellina, «veniamo tutti esiliati: Pietro diventa capogruppo alla Camera, lontano dal vero potere del partito. Rossana viene rimossa dalla carica e “promossa” in Parlamento; Luigi viene mandato in Sardegna come vicesegretario regionale e responsabile della Commissione agricoltura e sarà poi mandato anche lui in Parlamento; io, in quel momento lavoravo con Nilde Iotti e vengo chiamata da Giorgio Napolitano, che mi propone di tornare a fare la giornalista a Paese Sera, dal quale provenivo ed io rispondo di no: “O sono ancora comunista o non lo sono più”, esclamo. A quel punto Nilde, che non era stata avvertita, va su tutte le furie e in Direzione mi difende con veemenza, ottenendo che venga mandata a lavorare alla presidenza dell’Unione donne italiane. Lucio invece si licenzia da funzionario, prendendo le sue 30.000 lire di liquidazione».
Forse è in questo preciso momento che in quel gruppo, che era stato essenzialmente politico, irrompe la vita, con le sue imperfezioni e le sue gioie, con la forza dirompente del suo scorrere che il rigido apparato comunista non è più in grado di irreggimentare e controllare. La condizione di sconfitti ed emarginati rinsalda le relazioni umane, il prezzo pagato per la propria libertà è alto, ma mette questo gruppo in sintonia con quel che sta avvenendo nel mondo: dalle lotte studentesche delle università americane parte la contestazione della guerra in Vietnam, la Cina contesta l’egemonia dell’Urss, mentre la piccola Cuba tiene testa alla potenza americana. In Italia il centrosinistra perde lo slancio riformista dei primi anni, le lotte operaie si fanno più dure, cominciano le prime occupazioni delle università, nel mondo cattolico l’apostolato di Giovanni XXIII ha generato una nuova leva di cattolici impegnati nelle lotte dei diseredati.
Vivono un po’ da bohémien, squattrinati ma arsi dalla passione politica e da una febbrile ricerca delle nuove vie per la “rivoluzione”. Racconta Luciana Castellina: «Lucio va a vivere all’Argentario nella casa che io prendevo in affitto per tutto l’anno. In casa non c’era neppure la televisione, per cui per guardarla andava al bar dove, non avendo una lira, consumava due caramelle mou. Furono anni preziosi, nel corso dei quali si cementarono i nostri rapporti, ma non fummo mai una frazione. Certo, ci vedevamo, a casa mia o di Rossana, che abitava di fronte a me, con Bruno Trentin, con il mio ex-marito Alfredo Reichlin, con Aldo Natoli, con Pietro Ingrao. Lucio, che aveva scelto la libertà, ogni tanto andava da Luigi in Sardegna e trascorreva del tempo con lui. Nel frattempo irrompe il ’68, con i movimenti studenteschi ma per noi soprattutto con l’invasione della Cecoslovacchia».
Se il ’68 si chiude con la morte dello studente Soriano Ceccanti alla Bussola di Viareggio, il ’69 si apre con un’altra giovane vita sacrificata: è quella di Ian Palach, lo studente che si dà fuoco a Praga in piazza San Venceslao un anno dopo l’invasione sovietica, ben presto dimenticata: «A quel punto, come scrivemmo sul secondo numero della rivista, “Praga è sola”. È in quel momento che decidiamo di fondare la rivista, il cui primo numero uscirà il 23 giugno. Il nome della rivista lo trovammo seduti sul muretto qui sotto casa mia. Eravamo io, Rossana, Lucio, Luigi. Dapprima Lucio pensava a un nome raffinato, “Il Principe”, con l’evidente richiamo a Machiavelli, ma poi ci venne in mente il manifesto, anche se ci sembrava un po’ arrogante prendere il nome del libro simbolo del comunismo. Poi però pensammo, ma sì facciamolo! Anche perché manifesto voleva dire anche Tazebao, ovvero lo strumento di propaganda usato nella rivoluzione culturale cinese, e rappresentava anche la nostra richiesta che il dissenso fosse, appunto, manifesto».
Nasce così la rivista, sobria ed elegante, disegnata da Giuseppe Trevisani, che era stato il successore di Abe Steiner al Politecnico di Elio Vittorini, con quella testata tutta in minuscolo e con quel particolare carattere che, diremmo oggi, diventa un brand di successo. Troppo successo, forse. Il primo numero, diffuso in edicola dall’editore Dedalo, vende più di 50.000 copie. La rivista è diretta da Magri e Rossanda, scrivono Luigi Pintor, Vittorio Foa, Ninetta Zandegiacomi, Daniel Singer, Enrica Collotti Pischel, Edgar Snow e K.S. Karol, Michele Rago e Lucio Colletti, tra gli altri. Jean Paul Sartre concederà una lunghissima intervista a Rossana Rossanda.
Nel partito si apre un processo che ricorda gli anni bui dello stalinismo: coloro che rifiutano l’abiura, vengono cacciati, dal Comitato centrale fino all’ultima sezione. Non li difende neppure Ingrao, il leader con cui avevano rotto al dodicesimo congresso. Se ne pentirà amaramente, come anche Enrico Berlinguer che favorì poi il rientro nel partito a metà degli anni ’80, gestito proprio da quell’Alessandro Natta che aveva presieduto il tribunale dell’inquisizione comunista (per una ricostruzione più accurata “Unire è difficile” di Guglielmo Pepe e “Da Natta a Natta” di Aldo Garzia).
Rossana Rossanda ha ricordato così la rottura: «L’uscita della rivista, e il suo clamoroso successo, spezzavano, lealmente ma fuori di ogni disciplina, il meccanismo. La nostra scommessa era di legittimare nel Partito una discussione di fondo sui temi che erano maturati nel decennio Sessanta, culminati nel ’68 degli studenti e nel precipitare dell’autunno caldo del ’69. Si apriva una fase riformista? E se sì, quale era la collocazione che il Pci doveva assumere in questo scenario? Esso avrebbe favorito un avanzamento del movimento operaio o costituiva un pericolo di assorbimento delle masse fino allora combattive? Il capitalismo italiano restava vecchio, miope e fascisteggiante o si sarebbe ammodernato anch’esso, capace di innovazione e di una contrattualità meno repressiva?».
Ricorda Luciana Castellina, che allora militava nella storica sezione romana di Ponte Milvio, quella di Berlinguer: «Fui radiata anche con il voto favorevole di Giuliano Ferrara che mi chiede ancora scusa. Ero stata mandata via dal partito nel quale avevo militato per 25 anni, fu come se mi avessero buttato dalla finestra, ma invece di sfracellarmi al suolo atterrai sul ’68. E il ’68 ci accolse. Fu un tempo straordinario e il rimpianto è che allora di quella storia il Pci non capì nulla».
Il cambiamento però non riguarda solo la politica, ma anche il modo di vivere, che comporta la rinuncia dei pur modesti “privilegi” di cui godevano i rivoluzionari di professione: «Eravamo tutti ex-funzionari di partito, ci trovammo squattrinati e sopravvivemmo con i soldi dei compagni che erano parlamentari. Io vivevo a casa mia, ma alla salita del Grillo, che affaccia sui Fori, c’era un grande appartamento che costava poco perché era di proprietà del Pio Istituto di Roma, e che era stato trovato da Giuliana Giorgi, l’ex-moglie di Giancarlo Pajetta. Lì, in un grande salone dove si tenevano le riunioni e in tre stanze, viveva una specie di comune di maschi: Lucio Magri, Filippo Maone, Eliseo Milani, cui poi, fino ai primi anni ’80, si aggiunsero altri compagni. Nel dicembre del 1969, ricordo Dario Fo che gioca a scacchi con Lucio quando arriva la notizia della strage di Piazza Fontana mentre a poche centinaia di metri, all’Altare della Patria, scoppiavano le bombe. Lì si insedia la redazione della rivista, retta dalla segretaria di redazione, Ornella Barra, che lo era stata anche a Critica Marxista».
Un gruppo di comunisti liberi e critici, che pagarono di persona la loro scelta, rinunciando a ruoli importanti e a un futuro brillante, si avventura dunque nell’impresa pazzesca di fondare prima una rivista e poi un quotidiano senza soldi, senza partito, senza padroni. Cinquant’anni dopo, in questi tempi di sinistre senz’anima, di politica senza passioni, di rancore iniettato nelle vene del Paese, i protagonisti di quell’impresa, al di là del giudizio politico e storico, ci appaiono avvolti dall’aura del mito. E non solo a chi, come me, da giovane militante prima e da giornalista poi, ha avuto la fortuna di formarsi alla loro scuola, anche se poi ha preso, com’è naturale e com’è accaduto a tanti altri, strade diverse. Forse era tutto sbagliato? Si trattò, come si usa dire oggi, di ubriacatura ideologica?
Luciana Castellina risponde così: «Mi ha detto Paolo Mieli: “Sono stato felice perché sono uscito dalla solitudine, ho trovato gli altri e abbiamo fatto insieme delle cose”. È la scoperta della politica: uscire dalla solitudine, incontrare gli altri e diventare insieme protagonisti. Cinquant’anni dopo, ho il rimpianto perché quel grande patrimonio comunista fatto di passione, di moralità, di militanza, è stato poi gettato via».
Sarebbe certo assurdo cercare in quelle pagine le risposte ai problemi dell’oggi, ma ci sarà una ragione se quel modo di vivere la politica, così distante dall’attuale narrazione progressista, così esangue e avara di sé, riesce ancora a farsi strada dal basso, nella vita, tra i giovani, fuori dal Palazzo, in uomini come Mimmo Lucano, nei tanti e tante che mettono in gioco i loro stessi corpi in difesa dei più deboli, così pienamente politici perché radicalmente umani.
Le storie, tutte le storie, hanno le loro sliding doors e anche questa che vi abbiamo appena raccontato avrebbe potuto finire diversamente, rivela Luciana Castellina: «C’era un piano B, se fosse andata male con la rivista: dal momento che Lucio e Rossana erano molto bravi a cucinare, avevamo individuato un posto, alle cascate di Saturnia, dove avremmo aperto un ristorante. Chef sarebbe stato Lucio, sous-chef Rossana, terzo chef Valentino, Luigi avrebbe fatto il sommelier, e io avrei curato i rapporti internazionali e le pubbliche relazioni. Come l’avremmo chiamato? Che domanda: il manifesto, ovviamente».