Politica
12 luglio, 2019

Tutti gli ometti del capitano: ecco da chi è fatta la Lega di Matteo Salvini

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Fedelissimi venuti dal nulla, potenti del Sud con guai giudiziari, ex fascisti. Così nasce il partito del ministro dell'Interno. Una monarchia assoluta

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Più che un Capitano è uno zar. Lo zar Matteo Salvini. I suoi fedelissimi se ne compiacciono.: «Chi decide nel partito è solo e soltanto Matteo», si sono sentiti dire due settimane fa i militanti calabresi. «Noi siamo soldati: Salvini ordina, tutti eseguono», scandisce un dirigente in ascesa. «A differenza di tutti gli altri partiti abbiamo il culto della persona in modo molto più spiccato», ha scritto una volta Armando Siri.

Del resto il modello aspirazionale è, di tutta evidenza, quello della Russia Unita di Vladimir Putin. Altro che democrazia. La Lega di Salvini fa rimpiangere i livelli di compartecipazione al potere che al confronto dominavano nell’era del Cavaliere. Con Berlusconi, c’era un imperatore a capo di un impero. Le ville, Mediaset, gli avvocati, i condannati, i servi: tutta gente comunque riconoscibile. Nel caso del Carroccio vale l’inverso, e lo si capisce se si prova a togliere dal campo la faccia di Salvini come se si trattasse di spostare una pianta. Sotto il vaso, apparirà un mondo tutto diverso, un terriccio brulicante e oscuro fatto di commercialisti, gente venuta dal nulla, amici di amici, così come in natura vi sono tripidi, cocciniglie, afidi e altri esseri viventi per lo più invisibili ad occhio nudo.

Giusto per fare un esempio: invece che uno come Renato Brunetta, c’è Erika Stefani, della quale è infatti opportuno specificare trattarsi della ministra per gli Affari Regionali e le Autonomie. Il resto va di conseguenza. Cerchi magici che assomigliano a clan. Gestioni personalistiche, poche nomine, benefici solo ai fedelissimi. Quel che Salvini fa all’apice, brigadieri e appuntati del partito lo ripetono a tutti i livelli. Secondo un sistema dominato dal caso, che viene ogni volta messo alla prova dalle successive ondate migratorie dal resto del centro destra: in queste settimane assistiamo a quella post-europee fluttuano ad esempio i nomi di Nello Musumeci, Alberto Cirio, Salvo Pogliese), che non è la prima. Anzi la Lega al sud nasce proprio così: con i migranti democristiani passati dalla corte di Cuffaro e Lombardo a quella di Salvini.

ANONIMI MIRACOLATI
Salvini, lo si intuisce, non ama la concorrenza interna. Piuttosto, gli piace miracolare gli anonimi, selezionare persone che ritiene capaci, originali. E soprattutto sue. Il nuovo che avanza non sempre è passato dalle sezioni del territorio, ha ovunque soppiantato bossiani e maroniani, non è stato svezzato né da Bossi né da Giorgetti. Tra gli ultimi in ascesa c’è per esempio Andrea Crippa da Monza, 33 anni, già consigliere comunale a Lissone, poi assistente di Salvini a Bruxelles e leader dei giovani padani. Si era già fatto notare un paio d’anni fa, per aver aizzato polemiche contro il Museo delle Antichità Egizie di Torino (che l’ha citato in giudizio), da metà giugno è vicesegretario a fianco di Lorenzo Fontana e Giancarlo Giorgetti. Laureato in relazioni internazionali alla Cattolica, da neodeputato ha idee chiarissime su come funzioni la gerarchia: «Noi siamo soldati: Salvini ordina, dà il messaggio al capogruppo Molinari, e tutti lo eseguono. Punto». È considerato, non a caso l’astro nascente del Carroccio.

Un’altra creatura tipica del salvinismo è Paolo Borchia, appena eletto all’europarlamento con oltre 37 mila preferenze, è considerato una specie di successore del ministro Lorenzo Fontana, di cui appena trentenne già a partire dal 2010 era capo segreteria a Bruxelles. Nato a Verona, classe 1980, marmista per tradizione familiare, tesi di laurea sull’anarco sindacalismo e il catalanismo, una qualche notorietà conquistata battendosi a favore delle sigarette elettroniche (una delle aziende produttrici ha finanziato il partito), al Parlamento europeo ha tessuto per anni e tiene tutt’ora i fili dei rapporti con l’alleanza sovranista, dal Rassemblement National in giù. Figlio del nord, per anni in semi penombra, ora si è conquistato la luce.

Dalla Toscana in su, non c’è del resto luogo dove i fedelissimi di Salvini manchino. Nel Friuli c’è il salviniano di confine Massimo Fedriga, il Veneto è stato appena commissariato, in Piemonte Riccardo Molinari ha vinto sul candidato calderolian-bossiano. In Lombardia, accanto al governatore Attilio Fontana, considerato affidabile fino a un certo punto, a fare la capo segreteria c’è Giulia Martinelli, la ex di Salvini. Da Como viene Alessandra Locatelli, la nuova ministro della Famiglia. Anche per lei carriera-lampo, grazie forse all’idea di proibire le elemosina ai clochard nella città dove è vicesindaco. Nella Bergamo che fu di Roberto Calderoli, e dove tutt’oggi si tiene il raduno annuale a Pontida (con la differenza che accanto ai vichinghi c’è la ’nduja dello stand calabrese) a comandare è l’enfant prodige Daniele Belotti, ultras atalantino così come Borchia lo è dell’Hellas e Salvini del Milan, nei mesi scorsi in predicato per andare a commissariare il Lazio (la faccenda ha avuto poi uno stop, non si sa quanto definitivo).

Bergamo è il cuore della rivoluzione interna: aver spostato la gestione finanziaria del partito da via Bellerio a Via Angelo Mai. Chi gestisce i conti sono i tre commercialisti voluti da Salvini, primo fra tutti il tesoriere Giulio Centemero, un altro venuto dal nulla e che si è portato dietro nell’impresa i suoi amici dell’università. In pochi anni hanno conquistato anche numerosi incarichi nelle partecipate e in alcune società controllate dal partito. Una storia simile a quella di Luca Morisi, le cui fortune imprenditoriali coincidono con l’ascesa di Salvini.

I nuovi emergenti seguono lo stesso percorso di volti già noti. Anche Claudio Borghi e Armando Siri, per esempio, sono stati pescati dall’indistinto, arruolati a suo tempo direttamente dallo zar per diventare personale classe dirigente di Salvini, pianificare le politiche economiche, riforme del fisco, rivoluzioni varie. Borghi è l’economista nemico dell’euro, da tempo ormai ospite fisso dei talk show, che si è ritagliato un suo spazio all’interno della nuova Lega fin dai primi passi di Salvini segretario. Le sue ricette economiche hanno riscosso grande successo nel partito che si mutava da secessionista in nazionalista.

L’altro consigliere economico scelto dal capo è Armando Siri, l’ideologo della flat tax, già sottosegretario alle Infrastrutture, dopo l’inchiesta per corruzione è scomparso dai riflettori, ma resta uomo di punta nel partito. Siede alla destra del Capitano. Guida uno dei fiori all’occhiello del salvinismo: la scuola di formazione politica. E si circonda di personaggi che sembrano venuti fuori da Harry Potter e la pietra filosofale. Ad esempio l’ingegner Aldo Storti, che nella scuola si occupa della regia tecnica, è tra i soci del movimento Roosevelt, fondato dall’ex maestro venerabile Gioele Magaldi, ed è capace di articolare - per davvero - frasi del tipo: «Questo spostamento è legato alla fine dell’era dei Pesci, governata dal sesto Raggio, e l’inizio dell’era dell’Acquario, governata dal settimo». E in grado, addirittura, di farne una strategia politico-comunicativa: «Più riusciamo ad impostare Matteo e il programma sull’energia del settimo più prendiamo un vantaggio rispetto agli altri... Perché il settimo che governa l’era dell’Acquario agisce su tutti e tutti, chi più chi meno, lo avvertono, anche se in modo inconscio», scrisse una volta a Siri. Il quale, giusto per la cronaca, gli rispose: «Sì, è così».

L’IBERNAZIONE
Monarchico, il partito di Salvini, anche nei modi. Commissariamenti, mail, chat su WhatsApp: le decisioni circolano per cerchie ristrette. L’ultimo esempio è quello del Veneto. Dove Salvini ha comunicato il nome del commissario via sms, senza alcuna riunione del Consiglio federale: via il bossiano e neo europarlamentare Toni Da Re, che aveva preso le redini del partito dopo la rocambolesca cacciata di Flavio Tosi, al suo posto arriva come commissario Lorenzo Fontana, ministro della Famiglia e tra i fedelissimi di Salvini, che resterà fino ai congressi. Si riduce così ancora lo spazio di manovra di Luca Zaia, il governatore del Veneto che rappresenta uno degli assi alternativi - forse ormai l’unico - a quello salviniano. Perché sul territorio, a forza di commissariare, sono rimasti soltanto i salviniani a gestire le scelte.

È un partito ibernato: nelle cariche, segreterie, nomine, tutto bloccato fino al nuovo congresso, che prima o poi si farà. Ad attenderlo sono soprattutto i padani, ansiosi di sapere che fine farà il partito fondato da Bossi, e quindi loro stessi. Non si celebra un congresso da anni: l’ultimo cambio negli assetti di potere risale al 2013, quando Salvini fu eletto segretario. Un sistema che le primarie del 2017 hanno confermato. Col risultato che adesso, nonostante l’evidente cambio di pelle del partito, non si ha notizia neanche del congresso annunciato da mesi per il dopo europee. A rendere difficili le cose, il passaggio tra il vecchio e il nuovo partito. Ma intanto, anche le cariche ufficiali non valgono più: il partito di Salvini ha superato gli organigrammi ufficiali. Basta dare un occhio al sito della Lega Nord, dove in pratica l’unico che ha conservato immutato il proprio potere è il tesoriere Giulio Centemero. La sezione news è ferma al 2018, la “nostra storia” si ferma al 2010, l’anno in cui Calderoli era il piromane ministro delle Riforme che bruciava leggi inutili.

Ed è probabilmente vero che la storia condivisa della Lega si fermi proprio lì. Tre anni dopo - in mezzo gli scandali, i Belsito, i diamanti, i Trota - arriva Salvini. Che oggi è l’unico leader al mondo a governare due partiti: è segretario della Lega Nord per l’indipendenza della Padania e pure della Lega per Salvini premier. La prima è la storica formazione fondata da Umberto Bossi. La seconda è la nuova creatura fondata dal ministro dell’Interno nel 2017, il partito che ha cancellato la parola Nord e si è fatto nazionalista e sovranista. Una sorta di good company che usa la bad company per seppellire le scorie. La nuova è destinata a incassare i successi elettorali, il 2 per mille dei cittadini, e da gennaio anche le erogazioni degli eletti, la vecchia è condannata a risarcire lo Stato con i 49 milioni di euro di rimborsi truffati.

La metamorfosi ha subito certamente un’accelerazione con la sentenza di condanna di Bossi e dell’ex tesoriere Francesco Belsito, ma l’obiettivo di Salvini era chiaro fin da principio. Da quando cioè, poco dopo l’incoronazione, ha realizzato la profezia del Senatùr: «Se vince Salvini, la Lega è finita», aveva predetto il fondatore. E in effetti quel partito non esiste più. Sembra quasi un cimelio lasciato lì per i nostalgici, i vecchi dirigenti da Bossi a Maroni. Un atto di cortesia. Ma l’agonia prima o poi finirà. E non è detto che accada in maniera indolore, soprattutto se l’astro salviniano dovesse avere momenti di crisi.

Certo non mancano gli indizi di una potenziale frattura, che dall’alto delle idealità corre giù fino alle solite questioni di soldi: «Io sono della Lega nord. Nessuno può obbligarmi a iscrivermi a un nuovo partito», ha detto un iscritto illustre, Roberto Maroni, intervistato dell’Espresso. In sintonia l’altro illustre iscritto, Giancarlo Giorgetti, non ha ancora ritenuto di sostenere il nuovo partito: continua infatti a versare il proprio contributo alla vecchia Lega. Il passaggio tra i due contenitori, comunque è in pieno svolgimento: a fine marzo si sono dimesse le segreterie regionali, ma la Lega Nord è viva, vegeta e tesserante (le ultime sono state inviate agli iscritti ad aprile), e peraltro continua ad avere uno statuto che vieta l’iscrizione ad altri partiti o associazioni (clausola che consentì a suo tempo l’espulsione di Tosi).

MEZZOGIORNO DI CLAN
Il vero partito che conta, però, si chiama appunto Lega per Salvini premier. E splende di luce salviniana. È cresciuto a dismisura al Centro-Sud grazie a un lungo lavoro di semina iniziato nel 2015 con la creazione del movimento Noi Con Salvini, è proseguito con la creazione delle sezioni locali di Lega per Salvini premier. Ma è rimasto privo di una vera e propria organizzazione interna. Nell’ultimo anno Salvini ha preteso di fare il salto definitivo. Per riuscirci, ha invaso il meridione con commissari inviati dalla Padania. Uomini di sua assoluta fiducia. Meri esecutori di ordini.

Il Sud nella Lega sovranista è un fiorire di commissariamenti. È toccato prima alla Sicilia. Poi alla Calabria, alla Basilicata, alla Puglia. Record alla Campania: due volte, l’ultima una settimana fa, quando il commissario è stato commissariato per eccesso d’opacità. Di sicuro non si tratta di interventi dovuti a flop elettorali, semmai alle ombre che in certi casi avvolgono le storie dei dirigenti locali: parentele ingombranti, riciclati, indagini.

Comunque la Lega al Sud non è andata mai così bene. Ma, appunto, deve organizzarsi, e per farlo servirebbe un congresso. Di quale partito? Lega Nord o Lega Salvini premier? Ecco il punto. Un vero congresso federale della nuova Lega di fatto non esiste. Esiste quello della Lega Nord e si è riunito l’ultima volta nel 2017. Ma non era rappresentato nessun militante del Centro Sud. Per capire fino in fondo la mutazione genetica del partito è utile tornare al 23 giugno. Quando all’auditorium Casalinuovo di Catanzaro si sono tenuti gli stati generali della Lega Calabria Salvini premier.

Una resa dei conti organizzata dal nuovo volto, il commissario inviato dal partito a mettere ordine: Cristian Invernizzi. Nordico fino al midollo, cresciuto con mito dell’ampolla del Po e diventato servitore del Capitano. Talmente fedele da accettare un incarico estremo: fare della Lega calabrese un partito vero. E così Invernizzi approda a Lamezia Terme, la (diciamo) via Bellerio calabrese, di fatto per commissariare il primo deputato leghista della regione e fin lì capo della Lega in Calabria, l’ex storaciano Domenico Furgiuele, con tutte le sue ombre, prima fra tutte il suocero in carcere per estorsione aggravata dal metodo mafioso. Nel giorno in cui lo destituisce, Invernizzi il padano è chiarissimo coi presenti: «Nella Lega comanda Matteo Salvini ed è lui che prende le decisioni più importanti. I militanti sono chiamati, prima di tutto, a rispettare le rigide regole interne che non lasciano spazio a improvvisazioni, ad esibizionismi dettati più da ambizioni personali che non dalla sana volontà di far crescere il partito nei territori». Avverte che la Lega non è un autobus per portatori di voti e per politici abituati a cambiare casacca.

Toccherà andarlo a spiegare ai tanti calabresi che da Forza Italia sono passati con Salvini. Come a Rosarno, nel Reggino, dove è diventato sovranista anche il consigliere comunale Enzo Cusato, un nome pesante da quelle parti, anche perché è il consuocero del boss Rocco Bellocco, tra i padrini più potenti della ’ndrangheta. Nella primavera 2018 erano tutti insieme, stesso tavolo, a festeggiare gli ottimi risultati elettorali: Cusato, Matteo Salvini, l’allora coordinatore Domenico Furgiuele e il responsabile cittadino Vincenzo Gioffré, già in affari con uomini legati alle cosche.

Stessa sorte per il partito in Puglia. Qui è arrivato Luigi D’Eremo, deputato abruzzese, ex Destra. Il motivo ufficiale è sempre lo stesso: riorganizzare il partito, costruire Lega Puglia Salvini premier. Aveva fatto discutere un guaio giudiziario del senatore pugliese della Lega Roberto Marti, coinvolto a Lecce in un’indagine su voti in cambio di alloggi, ma ciò non ha impedito la sua nomina a commissario provinciale nel Salento.

I leghisti di Sicilia sono stati i primi ad assaporare la novità del commissariamento. A Palermo è arrivato subito dopo il 4 marzo 2018 Stefano Candiani. Varesino di Tradate, ha subito preso in mano la situazione di un partito scosso da un’inchiesta che ha coinvolto alcuni leghisti, anche l’allora responsabile regionale Angelo Attaguile (ex dc, cuffariano, poi lombardiano) e il deputato Alessandro Pagano (ex Fi). Salvinianamente, cioè in maniera del tutto arbitraria, Candiani si è messo al suo fianco Igor Gelarda, grillino della prima ora poi votato alla causa sovranista. Inascoltati i borbottii della base. Del resto è bene tenere a mente il monito di Invernizzi, il padano di Calabria: «Nella Lega comanda Salvini. Lui decide».

La Lega non sarà un autobus per voltagabbana e riciclati, ma un pulmino forse sì. Basta guardare al caso del Lazio, dove in pratica il partito è stato dato in appalto all’Ugl e dintorni, il sindacato una volta vicino all’Msi. Fino a poco fa a coordinare la lega era il sottosegretario Claudio Durigon da Cisterna di Latina - nota roccaforte padana - già capo segreteria dell’assessore al Lavoro della giunta regionale di Renata Polverini (quella passata alla storia per Fiorito-Batman), adesso al suo posto c’è l’attuale coordinatore, Francesco Zicchieri, cresciuto anche lui nella gavetta Ugl. Ex An, consigliere a Terracina e tifoso del Milan: è nipote - tra le prime cose che tiene a sottolineare - di Mario Zicchieri, ucciso nel 1975 dalle Br a due passi dalla sezione dell’Msi del Prenestino. Gli altri vanno di conserva.

A Roma è stata appena nominata Flavia Cerquoni, ex destra sociale, consigliera municipale con Fdi, poi transitata in Lega. Sul litorale c’è Mauro Gonnelli, Fiumicino, considerato un astro nascente finché il nome non è stato disgraziatamente offuscato da una menzione da parte di Ernesto Diotallevi, già fra l’altro Banda della Magliana, che in una intercettazione di Mafia Capitale si rallegrava per la sua possibile elezione - rivelandosi così un suo sostenitore occulto. Nell’entroterra, per la Tuscia, commissario anche di Frosinone, Rieti, Latina e Viterbo, c’è Umberto Fusco, anche lui ex Ugl ma leghista da un paio di lustri: ha festeggiato il decennale giusto in aprile, a Tarquinia lido, con porchetta, olive ascolane e fritti. Ma è un’altra serata, il compleanno di Fusco, una ottima cartina di tornasole del livello medio della classe dirigente locale. Gira sui telefonini dei leghisti un servizio di cinque minuti, andato in onda su un tg locale, nel quale tutti i capi del partito, durante la cena di festeggiamento in un ristorante romano, si intervistano l’un l’altro, con grado alcolico crescente e battute sgargianti del tipo «lui non ha mai lavorato nella vita». Sono costoro, dunque, a gestire ogni cosa, compresa l’opposizione che in teoria si potrebbe fare in Regione al segretario del Pd Nicola Zingaretti. Barricati al vertice di un partito che fa gola al centrodestra in disarmo, privi almeno sin qui di un meccanismo di selezione di una classe dirigente che pure, visti i successi, è chiamata ad allargarsi. Tra gli acquisti recenti, per dire, c’è la coordinatrice di Anzio, Annalisa Guercio: nominata in gennaio, è la moglie di un agente della scorta di Salvini e ha con il segretario un ottimo rapporto. Di qualche giorno fa le foto di un caffè preso al bar Benito, Nettuno.

MOVIDA SOVRANISTA
Dimenticate Roma ladrona. Gli slogan della Lega oggi sono altri. La trasformazione non è solo politica, ma culturale. Con il potere romano il partito trasformato da Salvini è intimo. Prendiamo per esempio il rapporto “fraterno” con Luca Parnasi, il costruttore romano sotto processo per corruzione in seguito all’indagine sul nuovo stadio della Roma. A definire Salvini «un fratello» è proprio Parnasi in un dialogo intercettato dai carabinieri. Del resto più che le parole contano i fatti: l’imprenditore erede di una dinastia di palazzinari ha finanziato l’associazione Più voci del tesoriere della Lega con 250 mila euro. Luca Parnasi è il tipico figlio della Capitale bene, dei salotti che contano. Non propriamente un tipo da Pontida anni ’90. Più un tipo da «metodo anni ’80», dirà di lui un suo collaboratore per descrivere la strategia del suo capo di distribuire mazzette. Anche in questa nuova rete relazionale si colgono i mutamenti imposti da Salvini nella Lega. Ai tempi di Bossi c’erano gli industriali bergamaschi, del varesotto, del Mantovano, che foraggiavano il Carroccio. Guai a prendere soldi sotto il Po. Oggi ogni denaro è buono anche se viene dai poteri della città odiata per decenni. E comunque è buono sempre.

Il vicecapogruppo alla Camera Fabrizio Cecchetti, oggi commissario a Milano, ed Eugenio Zoffili, responsabile della segreteria di Salvini, insieme a Giulia Martinelli, e a Gian Marco Senna, unico vero imprenditore della compagine, sono diventati azionisti di una serie di ristoranti a Milano e Como. Una quindicina in tutto, con un fatturato complessivo di quasi 7 milioni di euro nel 2016. Si va dalla storica Trattoria La Pesa alla catena di hamburgherie Fatto Bene, dal ristorante di pesce Bianca alla cucina fusion italo-cinese di Ghe Sem. Locali alla moda, dove ci si diverte e per il sovranismo assume tutto un altro sapore. Altro che mutande verdi, corna vichinghe, campanacci. E l’era del Papeete beach.

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