La rabbia di Salvini, la mossa di Zingaretti, la partita di Conte, la lotta per la sopravvivenza di Di Maio. Ma la politica rimbomba nel silenzio della società

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Allegria di naufragi, la nave della politica italiana nella crisi ferragostana sembra contagiata da una strana forma di contentezza, è farsa più che dramma, una fiction in cui i protagonisti faticano a restare fedeli alle parole appena pronunciate.

Un set televisivo, l’aula del Senato, la piazza vociante intorno convocata come una platea di figuranti nervosi e incazzati, a recitare la parte del popolo-che-si-è-rotto, sempre più stentata, i ministri che sfrecciano nelle strade disabitate, le consultazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Quirinale con i partiti in attesa dell’incarico, come quattordici mesi fa, quando cominciò l’avventura del governo gialloverde presieduto dall’avvocato Giuseppe Conte, conclusa alle otto di sera di martedì 20 agosto, con un gran clamore di piatti lanciati, ceffoni, accuse, minacce, recriminazioni, tutto il repertorio sgradevole di queste occasioni.

Ma tutto questo è un già visto nella storia repubblicana. Mentre quel che è inedito, e che resterà nella memoria di questa crisi 2019 quando tutto si sarà concluso, è il silenzio, il vuoto in cui tutto è avvenuto. Il vuoto dell’agosto, quando – si sarebbe detto un tempo – le fabbriche sono chiuse e le città deserte. Per questo, una volta, l’estate veniva considerata un momento pericoloso, per la sua stasi, l’apparente quiete che avvolgeva le tentazioni delle spallate istituzionali.

Nella storia repubblicana fu vista così, con allarme e con gravi conseguenze politiche, l’estate del 1964. «Il 14 luglio del 1964 fu la giornata più calda dell’anno: 36 all’ombra. Due generali di divisione, undici generali di brigata e mezza dozzina di colonnelli, in piedi, impettiti sull’attenti, stipati nella stanza del comandante generale dell’arma dei carabinieri, sudavano», scrisse Lino Jannuzzi sull’Espresso, tre anni dopo, ricostruendo quanto si era pianificato. Tutti sudavano quando il generale avvertì: «La Nazione ha bisogno di noi».

Era il Piano Solo, il tintinnar di sciabole, come lo chiamò il leader socialista Pietro Nenni, il fantasma del colpo di Stato che agitò quell’accaldata estate romana alle prese con la crisi del primo centro-sinistra guidato da Aldo Moro. E si progettava un governo di salvezza nazionale guidato dal presidente del Senato Cesare Merzagora, in cui dovevano entrare come ministri tecnici Donato Menichella, Enrico Cuccia, ma anche il comunista Luigi Longo. «Di governi di emergenza ve ne possono essere di diversi e ciò implica posizioni nostre diverse», aveva dettato la linea Palmiro Togliatti nella riunione della direzione del 15 luglio 1964, un mese prima di morire a Yalta.

Giuseppe Conte non è Aldo Moro, Nicola Zingaretti non è Palmiro Togliatti. Nessun paragone è possibile tra la crisi ferragostana di oggi e quella di 55 anni fa. Se non, al solito, l’intreccio di scenari internazionali, preoccupazioni interne, vanità personali che fa da sfondo a ogni sussulto del sistema politico italiano. Ma quello di allora era un sistema pieno, di iscritti, militanti politici, e poi sindacati, riviste, studenti universitari. Mentre quello che è evidente, ora, è l’assenza di attori sociali che intervengano, oltre a quelli politici che tendono sempre di più a diventare personaggi seriali, per un pubblico che dimostra di apprezzare lo spettacolo (gli ascolti tv per gli speciali dedicati alla crisi hanno sfondato ogni record) ma che non ha altrettanta voglia di partecipare.

Appena caduto il governo Conte, è partito il tentativo che incubava da qualche giorno, il cosiddetto governo di legislatura, come l’ha definito il segretario del Pd Zingaretti svelando per la prima volta le carte di fronte alla direzione del suo partito il 21 agosto, elencando le condizioni di una trattativa con il Movimento 5 Stelle: appartenenza «leale» all’Unione europea, «pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa», con la difesa della centralità del Parlamento, sostenibilità ambientale, «cambio nella gestione di flussi migratori», svolta delle ricette economiche e sociali, con investimenti pubblici e redistribuzione del reddito.

Un programma così vasto, ma anche così ambizioso, da far pensare che Zingaretti, all’inizio contrarissimo all’ipotesi di tenere in vita le attuali Camere e pronto a tornare al voto, abbia a un certo punto della crisi immaginato per sé lo stesso percorso del leader socialista spagnolo Pedro Sánchez, che scalzò il popolare Mariano Rajoy dalla guida del governo a metà legislatura.

Ma anche questo tentativo di riportare la discussione ai mitici contenuti, il programma minimo di una sinistra progressista occidentale, gli stessi punti di cui discutono i democratici americani in questi mesi alla ricerca di un candidato alla Casa Bianca anti-Trump, è avvenuto in un gelo delle forze sociali che un tempo componevano il reticolo dei corpi intermedi.

Silenziosa la Cgil del nuovo segretario Maurizio Landini, che il 15 luglio accettò di sedersi al Viminale per parlare con Salvini della futura legge di bilancio: poco più di un mese fa, sembra passato un secolo. Silente anche il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia. Per non parlare delle altre associazioni di categoria, anche loro accorse in fitta schiera ad ascoltare le proposte economiche del ministro-capo leghista e del suo sherpa in materia, il senatore Armando Siri, dimissionato dal governo dopo l’inchiesta per corruzione sull’energia eolica epoi indagato per auto-riciclaggio dalla procura di Milano a proposito dei suoi affari immobiliari e dei finanziamenti ottenuti dalla Banca agricola commerciale di San Marino. Non comportava nessun imbarazzo sedersi a discutere di flat tax con un personaggio del genere, evidentemente, per i rappresentanti del mondo del lavoro e della produzione: è la dimostrazione più solare che soltanto un mese fa Salvini era considerato il futuro padrone d’Italia, l’uomo con cui fare i conti, il vincitore certo di elezioni ravvicinate.

L’unico soggetto a essere intervenuto con forza e prestigio in questi giorni di crisi è stata la Chiesa italiana. Con il presidente dei vescovi, il cardinale Gualtiero Bassetti, al meeting di Comunione e liberazione di Rimini, «non solo una crisi di governo, ma di sistema e di visione», e con altre voci autorevoli come quella del gesuita di Civiltà cattolica padre Francesco Occhetta, tutte favorevoli a un nuovo governo per evitare le elezioni anticipate e a mettere Salvini in minoranza. Sul modo di vivere la fede cristiana, del resto, nell’aula del Senato si è assistito allo scontro più duro tra Conte e Salvini, a colpi di rosari sventolati e sbaciucchiati dal ministro e di devozione esibita per nascondere la verità di un rapporto ostile con papa Francesco, individuato dai più estremisti tra i salviniani come il vero capo dell’opposizione al capo leghista.
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Il silenzio delle forze sociali sulla crisi, causato non solo dalla calura del Generale Agosto, sta esaltando la capacità trasformistica dei partiti e dei loro leader, capaci di smentire se stessi a pochi giorni di distanza, se non a poche ore. Tutti i protagonisti della scena sono finiti a turno in contraddizione con gli obiettivi dichiarati. Più di tutti, il Salvini trionfante, partito come un caterpillar per sfondare le linee con una guerra lampo, già in campagna elettorale in tour per le spiagge italiane, e afflosciato come una vela senza vento nel palazzo del Senato, indeciso perfino sul dove sedersi per tenere il discorso storico con cui intendeva sfrattare Conte da Palazzo Chigi, finendo invece per essere cacciato lui.

Un Capo in rotta, abbandonato dai fedelissimi, con i foglietti svolazzanti, aveva tre testi diversi per il suo intervento ed è riuscito a non leggerne compiutamente nessuno. Faccette, mossette, bacioni che diventano bacetti e ora il nuovo nemico, l’inciucio Pd-M5S che per il leader leghista sarebbe già in corso d’opera da mesi, forse da un anno. Una disarmante dichiarazione di ingenuità, il peggiore dei difetti per un leader macho come Salvini.

Nel momento più caldo, è finito in testa coda con se stesso anche il capo del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio. Il giovane vice-premier si è come eclissato, dopo essere stato sfiduciato e commissariato dal fondatore del Movimento Beppe Grillo nel vertice di Marina di Bibbona. Di Maio si era giocato tutto sul rapporto personale con Salvini, in poco più di un anno è riuscito a dimezzare i voti del suo partito e a perdersi per strada il principale alleato, pronto a tradirlo senza neppure una telefonata. È stato surclassato da Conte nella rappresentanza del Movimento in doppiopetto, in grisaglia ministeriale e rischia di essere scavalcato dal presidente della Camera Roberto Fico come nuovo puledro di razza di M5S nel governo.

Ma anche Beppe Grillo, tornato in scena per dare il benservito a Salvini e per benedire l’operazione con il Pd, deve incassare la sua buona dose di incoerenza. In particolare, le bordate riservate da Conte alla politica via social, ai messaggi semplificatori, all’uso della piazza contro il Parlamento, la lezione di rispetto istituzionale e di correttezza costituzionale impartita dal professore di diritto arrivato quasi per caso alla guida del governo. L’obiettivo dei ceffoni e delle censure è Salvini, il politico più social del momento, ma era impossibile dimenticare che gli stessi metodi hanno segnato l’ascesa politica della coppia Grillo-Casaleggio.

In contraddizione con la sua linea dell’ultimo anno, l’ex premier e l’ex segretario del Pd Matteo Renzi. All’inizio della legislatura fu lui a intestarsi la linea dei pop-corn, lasciar andare il governo M5S- Lega senza provare ad ostacolarlo, non prima di aver intrecciato una trattativa serrata e segretissima con l’odiato Movimento e con il suo aspirante premier Di Maio, poi fallita e sempre negata. All’inizio della crisi, invece, è stato il primo a fiutare che l’aria stava cambiando e ad aprire alla prospettiva di un nuovo governo. Arrivando, nell’aula del Senato, ad accusare l’ala zingarettiana del Pd di «connivenza» con Salvini, in caso di fallimento dell’accordo. Ma il movimentismo renziano non si fermerà certo con la nascita di un nuovo governo che non lo vedrebbe nella squadra dei ministri. Il senatore di Firenze ripete da giorni di parlare a titolo personale, da uomo delle istituzioni e non da esponente del Pd. È l’annuncio delle mani libere, forse l’anticipo di un nuovo partito. Una ragione in più per non fidarsi, dal punto di vista di Zingaretti.

Fino alle dimissioni di Conte, il segretario del Pd è sembrato il più solido, anche se il più silenzioso dei leader. Favorevole alle elezioni anticipate, come ha ripetuto a tutti gli interlocutori, aggiungendo però: «Sia chiaro: nel Pd a pensarla così sono solo io». Quando si è trattato di andare dal presidente Mattarella, anche il leader e presidente della regione Lazio si è mosso dalla casella iniziale. Costretto o no dal pressing di amici e di avversari interni, ha chiesto un governo di svolta e di discontinuità.

Una trattativa con i Cinque Stelle che con il passare dei giorni si è allargata a dossier inaspettati. Superare il modello del contratto, quello tra Lega e M5S, e costruire una vera alleanza politica che avrebbe conseguenza, per esempio, un accordo elettorale nelle regioni in cui si vota nei prossimi mesi: Emilia, Umbria, Calabria e forse Lazio. Anche perché diventerebbe un forte interesse comune di Pd e M5S la vittoria in questi territori, per dimostrare che il governo gode di un consenso diffuso. Mentre una sconfitta avrebbe l’effetto opposto: dimostrerebbe che l’accordo Pd-M5S è soltanto una manovra di Palazzo, senza radici nella società.

Nell’accordo, poi, c’è la designazione del rappresentante italiano nella Commissione europea. E poi l’incarico più importante di tutti: la presidenza della Repubblica quando, nel gennaio 2022, scadrà il mandato di Mattarella. E qui avanza il nome di un padre nobile del centrosinistra che con Zingaretti ha un rapporto di grande vicinanza come Romano Prodi, il primo ad avanzare l’ipotesi della maggioranza Orsola, dal nome italianizzato della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, eletta con i voti di Pd, Forza Italia, M5S e senza la Lega. Ma anche il presidente della Bce uscente Mario Draghi.

Nel vuoto dell’estate, molto si è mosso a livello internazionale. L’Europa guidata dalla Germania di Angela Merkel si è schierata contro i partiti sovranisti del continente, a cominciare dalla Lega che fino a questo momento era il partito elettoralmente più forte e l’unico a governare uno dei Paesi fondatori dell’Unione. È stato questo appoggio a rafforzare Conte nel suo scontro finale con Salvini. Non è sfuggito, nel discorso di addio del premier, l’accenno alla fedeltà all’atlantismo e all’Europa come pilastri della politica italiana: affermazioni banali, ma in controluce si potevano scorgere le delusioni riservate da Salvini ai partner di sempre.

In un anno Salvini si è inimicato la Casa Bianca, nonostante la sintonia ideologica con Trump, l’Europa, il Vaticano di papa Bergoglio. Gli è rimasta l’amicizia con Vladimir Putin, ma chissà se è stato un vantaggio. I sondaggi, già in discesa. E un clima che nel Paese è cambiato rispetto a pochi mesi fa. Non è una manovra di Palazzo che può invertire la strada rispetto a quanto è successo nell’ultimo anno: l’odio via social, la ricerca del capro espiatorio, l’umiliazione delle associazioni e delle Ong, i porti chiusi, l’ossessione della sicurezza.

La blindatura in una maggioranza parlamentare sarebbe l’errore fatale per gli strateghi del nuovo governo. Ma gli equilibri sociali, le scelte politiche, non sono mai scontate, non sono un dato conquistato una volta per tutte, in democrazia si può sempre cambiare, c’è sempre la possibilità di affrontare il voto con la possibilità di rovesciare un risultato già stabilito. I pieni poteri che il ministro Salvini ha sognato in una notte d’estate, in democrazia appartengono ai cittadini, a un popolo non indistinto. Solo che si spezzi il silenzio, l’allegria dei naufraghi. E il vuoto in cui siamo precipitati.