Renzi, Salvini e Di Maio sono indifferenti a quanto hanno affermato pochi minuti prima. Tutti figli di Berlusconi e del berlusconismo. Uno spettacolo che appassiona gli ascoltatori, ma è devastante per le sue conseguenze democratiche

Tre anni fa, di fronte all'avvolgersi della crisi politica del suo paese in una spirale incomprensibile, l'ex premier spagnolo Felipe Gonzales sospirò: «Siamo di fronte a una italianizzazione (Italianización) della nostra politica. È stato eletto un Parlamento all'italiana, ma senza italiani che lo sappiano gestire». Questa mattina pensavo a questa battuta ragionando su quanto è avvenuto nella giornata di ieri al Quirinale. Trattative, trabocchetti, colpi bassi, formule recitate nell'aramaico del Palazzo, sconosciuto ai comuni mortali. Una crisi da Prima Repubblica, senza l'abilità e lo spessore degli uomini della Prima Repubblica, però. Con attori confusi e pasticciati: la differenza che c'è tra i protagonisti di un reality e una grande serie ben scritta e con interpreti all'altezza.

Giusto quarant'anni fa, nel luglio 1979, il presidente della Repubblica Sandro Pertini affidò l'incarico di formare il nuovo governo a Bettino Craxi, il primo socialista a ricevere il mandato nella storia d'Italia. Il segretario del Psi avviò le consultazioni, poi fu costretto a rinunciare di fronte al veto della Dc. E sintetizzò la crisi con una specie di parabola: «In un paese lontano, si cercava di combinare un matrimonio tra un ricco possidente e una giovane di famiglia modesta. Il ricco possidente andò a fra visita alla famiglia della giovane di cui gli decantarono le virtù. Ma il possidente non si accontentò: chiese di vedere la ragazza nuda. Con le dovute cautele e in presenza della madre della ragazza, la candidata sposa fu denudata. Il possidente le guardò attentamente. Poi disse: “Non mi piace il naso”».

L'apologo della trattativa impossibile, con condizioni messe sul tavolo per essere rifiutate, per poi tornare al punto di partenza. Così parlavano, e così spiegavano, i capi della Prima Repubblica. Paragonati all'avvilente e inconcludente spettacolo di questi giorni, alle lingue biforcute di piccoli leader, fanno una certa impressione. Prendiamo la dichiarazione che Luigi Di Maio ha letto di fronte ai giornalisti al Quirinale, dopo il colloquio con il presidente Mattarella. In quelle righe, all'insaputa del capo di M5S, nella sua inconsapevolezza, sono sfilate insieme la Prima, la Seconda e la Terza Repubblica.
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La rivendicazione del voto popolare, tipica del bipolarismo modello Seconda Repubblica: «Abbiamo la maggioranza relativa, un primato che ci hanno dato i cittadini». L'elenco dei dieci punti di cose da fare, roboanti e irrealizzabili, proclamate a uso e consumo dei fedeli sui social, un frutto avvelenato della Terza Repubblica: l'Italia «cento per cento rinnovabile», la Rai come la Bbc, la riforma della giustizia, un sempreverde, e della scuola, «basta con le classi pollaio», ci mancava solo lo sbarco su Marte. E nel finale il linguaggio criptico della Prima Repubblica: «Sono state avviate tutte le interlocuzioni per avere una maggioranza solida che voglia convergere sui punti indicati». Che voleva dire, Luigi Di Maio? Tutto e niente. Come tutto e niente è la sua identità politica.

In quel momento, a quell'ora, Di Maio avrebbe dovuto semplicemente dire che con la Lega non avrebbe mai più governato e che l'interlocutore era il Pd, anzi, Nicola Zingaretti. Invece non è riuscito a dirlo. Così come, nell'intervista di oggi sul “Corriere della Sera”, fateci caso, la parola Pd non compare mai nel torrenziale bla bla di Di Maio. Mentre Salvini gioca come il gatto con il topo e fa annusare al capo di M5S l'offerta più clamorosa, la poltronissima di Palazzo Chigi, il sogno della vita di Giggino.

Salvini, il Capitano, fa oplà dalla spiaggia al Palazzo. È feroce con i deboli, con i migranti, ma ieri al Quirinale si è visto fare le fusa a Di Maio come un gattone domestico, pur di rimediare all'errore della vita, essersi escluso da solo fuori dalla maggioranza senza ottenere il voto anticipato. È l'uomo che non arretra a bordo della Ruspa, che si è fatto un nome e una fama sulle spalle dei poveri, ma che non riesce a staccare quella parte nobile del corpo a lui tanto cara dalla poltrona ministeriale.

La Grande Crisi
Il vuoto oltre il Palazzo
23/8/2019
Sul versante opposto, quello del Pd, Zingaretti ha chiesto al Movimento 5 Stelle una svolta radicale: l'accettazione di un'alleanza politica, termine ritenuto dai grillini fino a poco tempo fa una bestemmia. L'affermazione della centralità del Parlamento, ovvero sbugiardare sul piano ideologico le utopie direttiste della Casaleggio. La cancellazione dei decreti sicurezza uno e due (sia chiaro: varrebbe la pena di fare questo governo solo per ottenere questo risultato di civiltà). E una discontinuità di uomini nella squadra di governo, termine in politichese per dire che molti ministri di M5S dovranno lasciare gli uffici in cui si sono barricati.
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Su tutto questo si è abbattuta oggi la lezione di politica di Matteo Renzi alla scuola di formazione del Ciocco, l'audio con un attacco violento e personale a Paolo Gentiloni, accusato di aver tramato per far saltare la trattativa con M5S. Gentiloni, che è stato suo amico e vicino nell'ascesa del giovane sindaco di Firenze, ma che ha il difetto di pensare con la sua testa, una colpa evidentemente imperdonabile per Renzi. Curioso: l'ex premier è in questi giorni diventato la sentinella dell'Accordone, secondo lui bisognerebbe farlo e basta, senza se e senza ma. Una resa incondizionata del Pd in cambio della sopravvivenza della legislatura, obiettivo che sta molto a cuore a Renzi. Strana parabola per un leader che si è sempre identificato con il coraggio di affrontare il voto, con il no al qualsiasi forma di dialogo con M5S e che ancora qualche ora fa ha giurato di non voler parlare del Pd e delle sue correnti. Mentre ai ragazzi del Ciocco ha fornito un bel ritrattino dell'interno Nazareno, con Zingaretti, Gentiloni, Franceschini. Forse faceva prima a regalare agli studenti i cofanetti con la serie di House of Cards. Politica applicata, prima lezione, come ti stritolo il mio partito. Machiavelli no, per carità, lasciamolo stare.

In questo clima, Pd e M5S si vedono a livello di gruppi parlamentari. E la trattativa comincia in questo clima di congiure e sospetti, va avanti ma piano, sottoposta a qualunque tipo di agguato. Se la Prima Repubblica era un'opera di recitazione e un capolavoro continuo di alchimie e intrighi, ma anche di senso del limite istituzionale e politico, questa crisi assomiglia sempre di più alla casa del Grande Fratello, dove (Rocco Casalino docet) le alleanze si saldano e si spezzano in pochi minuti, un continuo rimescolamento di carte per evitare una cosa sola: l'eliminazione dalla Casa.

Renzi, Salvini e Di Maio sono i campioni di questo modo di fare politica. Sono indifferenti a quanto hanno affermato pochi minuti prima. Sono tutti figli di Berlusconi e del berlusconismo. E se qualcuno, anche chi fa il nostro lavoro di informare, osa farlo notare, denuda la propaganda, finisce per essere indicato come un disturbatore della quiete, un nemico del popolo.

Hanno cambiato tutte le parti in commedia. Ma alla fine la ragazza è denudata e non piace il naso. Il reality deve finire e lasciare il posto alla realtà. Lo spettacolo appassiona gli ascoltatori, ma è devastante per le sue conseguenze democratiche: la sfiducia, la mancanza di coerenza di fronte alle promesse, le parole che risuonano leggere e inafferabili, senza pesare più, la trasformazione degli elettori in pubblico e dei militanti in tifosi.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella l'ha detto ieri una volta per tutte: se non c'è una accordo serio, meglio votare piuttosto che continuare con questa recita grottesca, con leader piccoli e inadeguati.