Il presidente del Consiglio uscente viene dipinto dai suoi sostenitori come uno statista super partes. Ma è tutto l'opposto. Ed è la cosa più lontana dal concetto di discontinuità chiesto dal segretario Pd. Che ora ha tre strade davanti

«L’italiano non è l’italiano: è il ragionare», scrive Leonardo Sciascia in Una storia semplice. Vale lo stesso per la politica. La politica non è la politica: è il ragionare. Vuol dire che se sei un leader politico puoi fare qualunque mossa, anche la più cinica, la più spregiudicata, ma devi saperla argomentare di fronte agli elettori, naturalmente in uno Stato democratico.

Quanto sta avvenendo in queste ore, dopo il lungo ultimo fine settimana, dimostra questa l'impossibilità di argomentare, per i principali protagonisti della crisi. È impossibile per Matteo Salvini spiegare perché, dopo aver abbattuto il governo Conte con il pretesto che la Lega non poteva più essere alleata con il partito dei No, ora propone un governo con gli stessi No-tutto (leggi M5S), addirittura con Luigi Di Maio premier: questa mattina Roberto Maroni, autorevole esponente della Lega Nord (che non coincide con la Lega Salvini premier), è inorridito al solo sentirne parlare.

È impossibile per Luigi Di Maio spiegare perché intende allearsi con il Pd, da lui definito il partito di Bibbiano. Infatti, non lo spiega. Resta al mare, fedele al suo status, una vita in vacanza, il refrain con cui lo Stato sociale spopolò a Sanremo: e fai il il candidato e poi l'esodato, e fai opposizione e fai il duro e puro... Si rifiuta da giorni anche soltanto di nominare quel partito, il Pd, con cui sulla carta sta per governare il Paese. È impossibile per Nicola Zingaretti spiegare perché il Pd si prepara a cedere e a sostenere un governo presieduto di nuovo da Giuseppe Conte, stando alle ultime notizie e dopo un assedio asfissiante durato l'intero fine settimana, in cui è uscito allo scoperto il partito trasversale dell'attuale premier. Dalle cancellerie europee agli americani (non Donald Trump), dal Vaticano alla sinistra radicale. Fino al partito da sempre numericamente più forte nel Pd: gli abatini post-democristiani e post-comunisti, allergici al conflitto politico nella società e nel Paese, attenti agli impercettibili movimenti che ti conducono a essere in maggioranza, nel partito e nel Parlamento, con relativi benefici ministeriali.

Si è molto citato il tweet di ieri con cui Pierluigi Castagnetti, un antico saggio della politica buona e onesta, cattolico dossettiano, amico personale di Sergio Mattarella, ha ricordato la lezione di Enrico Berlinguer: «Nel 1976 Berlinguer (che avrebbe preferito Moro) accettò Andreotti, perché riteneva che sono i programmi e non le persone il terreno e lo strumento della discontinuità». Traduzione per i più giovani: come all'epoca il Pci appoggiò il governo Andreotti in nome di un disegno più alto e dell'emergenza del Paese, così oggi il Pd dovrebbe sostenere Conte.

La Grande Crisi
Il vuoto oltre il Palazzo
23/8/2019
Dispiace dirlo, ma questa volta il paragone non regge. Non c'è nessun confronto possibile tra quella situazione, l'Italia dell'inflazione a due cifre e del terrorismo rosso e nero, e quella di oggi. Basta leggere cosa scrisse lo stesso Andreotti di quel passaggio sul suo diario, il giorno 7 luglio 1976: «È indispensabile – ritiene Moro – coinvolgere in qualche maniera i comunisti: e questo momento deve essere gestito (la parola mi piace poco) da uno come me che non susciti interpretazioni equivoche all'interno e all'estero».

Moro pensava che un governo da lui presieduto con l'appoggio dei comunisti avrebbe scatenato reazioni internazionali (nel 1974 il segretario di Stato americano Henry Kissinger lo aveva minacciato per le sue aperture al Pci), mentre Andreotti in quanto uomo della destra democristiana e governante per tutte le stagioni avrebbe rassicurato. C'è una sapienza in questa scelta di Moro, un cinismo e una netta distinzione: la politica come gestione e la politica come disegno. All'epoca, nel 1976, prevaleva ancora il disegno, la grande strategia, importava poco chi fosse a gestirlo. I partiti contavano moltissimo, più del governo che era lo strumento per realizzare la politica. Dopo l'omicidio di Moro, nel 1978, è rimasta solo la gestione.

Oggi i partiti contano nulla, importa chi sta al governo. Conte è a suo modo un campione di gestione. Il potere per il potere, indifferente alle formule e alle distinzioni che sono il sale della politica. Afferma che la stagione di governo con la Lega si è chiusa per sempre, ma non è stato lui a dire la parola fine, è stato Salvini che voleva sfrattarlo da Palazzo Chigi. Dove ora vorrebbe rimanere con il partito opposto, il Pd. Se avesse a cuore il destino del Paese, forse farebbe un passo di lato. Invece, resta dov'è, ad assistere al disfacimento dei due partiti che dovrebbe comporre la maggioranza. Non la Dc di Moro e il Pci di Berlinguer, ma il Pd e il Movimento 5 Stelle.

Zingaretti ha chiesto in questi giorni per il nuovo patto di governo un'alleanza politica e non su una riedizione del contratto con la Lega. In risposta, Di Maio si è impuntato su Conte, sui suoi dieci punti, ha evitato di nominare in pubblico il futuro alleato e ha avviato il mercato delle poltrone ministeriali.

Il nuovo governo, in queste condizioni, può nascere solo dall'incontro nell'indistinto, la notte in cui tutti sono neri, il grigio ministeriale che confonde le differenze e che rende tutti conformi. Il professor Conte in questo annullamento di identità si trova a suo agio, egli è politicamente tutto e dunque niente, è l'Elevato, come lo chiama Beppe Grillo, lo stesso che anni fa definiva il suo movimento allora in gestazione «una piccola P2 sobria» (Espresso, 25 agosto 2005). È fedele all'Europa, certamente, ma ancorato a un partito che nel giro di pochi anni è stato con Farage, i liberali, i gilet gialli e ora sostiene Ursula von der Leyen, senza mai spiegare un cambio di scena, senza mai uno straccio di autocritica.

Con i suoi sponsor internazionali e interni che aumentano di numero di ora in ora, Conte rischia di diventare il primo presidente del Consiglio della storia repubblicana a guidare governi di colore opposto. Si può presentarlo come un servitore dello Stato super partes, ma è l'opposto di quanto chiedeva Zingaretti per un governo di svolta e di discontinuità. Questa mattina un fedelissimo del segretario, il responsabile dell'organizzazione Pd Stefano Vaccari, ha messo in rete un tweet in cui mostra Conte con in mano il cartello sul primo decreto sicurezza, il decreto Salvini. Il Conte uno ha firmato quel decreto, il Conte bis lo eliminerà? Siamo oltre ogni trasformismo: è la fine della politica come aspirazione a cambiare le cose. Per quel che riguarda il Pd, sarebbe il collasso finale del partito a vocazione maggioritaria, con l'ambizione di governare con le sue idee. Ma, quel che più è importante, il tramonto sul ragionare in politica, che apre la strada a nuovi populismi, forse addirittura peggiori di quelli fin qui conosciuta.



Zingaretti invoca «valori e dignità» e ha almeno due strade di fronte, anzi tre. Se la pressione per il governo Conte bis non si può fermare, allora si può almeno frenare la fame di posti e di ministeri che ha invaso il Nazareno: mezza segreteria è candidata al governo al posto della Lega, in prima fila i più radicali, quelli che tuonavano contro la svolta a destra del Paese e che ora si accontentano di sostituire i salviniani. C'è la strada dell'appoggio esterno, come fece Berlinguer nel 1976 con Andreotti. Oppure può non mollare sull'alleanza politica: se c'è un patto vero di governo con M5S, non può presiederlo Conte che impersonifica la stagione del contratto con la Lega. Terza strada: il voto anticipato. In tanti lo escludono perché temono la vittoria della destra, della Lega. Ma Salvini non è mai stato il demiurgo della destra nella società italiana, non è lui che ha provocato il vento in Italia e in Europa, semmai il vento soffiava così forte che perfino un politico mediocre come il capo leghista ne ha beneficiato. Per fermarlo, serve intercettare la corrente opposta, che esiste ma non viene rappresentata. E che non si blocca con una manovra di Palazzo, con il sobrio professor avvocato Conte. Si ferma con i valori e la dignità, appunto.


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