Avvocato del popolo e premier senza popolo, sovranista con Salvini, direttista con la Casaleggio, europeista con la Merkel, putiniano con Putin, trumpiano con Trump. Ora diventa ottimista, ecologista e vagamente socialista. Come da tradizione italiana
«Rispetto a prassi che prevedevano valutazioni scambiate nel chiuso di conciliaboli tra leader politici per lo più incentrate sulla ripartizione di ruoli personali e ben poco sui contenuti del programma, noi inauguriamo una stagione nuova...».
Era
la tarda mattinata del 5 giugno 2018, quindici mesi fa, non troppo tempo, quando nell'aula del Senato prese la parola il presidente del Consiglio per il voto di fiducia del nuovo governo. Il discorso più importante per un capo di governo, perché su quelle parole si chiede l'appoggio del Parlamento e si costruisce una maggioranza di sostegno. Si chiamava Giuseppe Conte.
A vederlo in questi giorni, alle prese i conciliaboli al chiuso, lasciamo perdere lo streaming e la trasparenza, a discutere di come «ripartire» i ruoli personali, una gara ai posti di governo che non conosce paragone a memoria, con le trattative per la poltrona di vice-premier che è arrivata a lambire la fase delle consultazioni al Quirinale per l'incarico di formare il nuovo governo, viene da chiedersi:
quante nuove stagioni ha già vissuto, nella sua ancor breve esperienza di politico, l'avvocato-professore Giuseppe Conte?Domanda non oziosa, perché serve a spiegare la natura politica del governo che si forma e del suo premier. Uscendo dal colloquio con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a incarico ricevuto, il presidente Conte ha pronunciato in meno di nove minuti sei volte l'aggettivo nuovo, attribuendo a se stesso missioni sempre più alte.
Nuovo progetto, nuova stagione, nuova prospettiva, nuovo umanesismo, addirittura. Anche lui, appariva nuovo. Il Conte tutto nuovo, elegantissimo con il ricercato abito scuro, con i bottoni a sfumatura azzurrina illuminati dalle telecamere, il fazzoletto candido piegato con cura, il quadrante dell'orologio ben visibile fuori dal polsino, come in una rivista da sfogliare in sala d’attesa, ha esposto senza esitare il nuovo progetto per «una solida prospettiva crescita», una nuova stagione, «ampia e riformatrice», perché l'avvocato le parole le sa usare.
Qualcuno ha scritto oggi che
quel breve discorso è un manifesto politico, per «disintossicare l'Italia». Poteva fare di meglio, però. Quando si presentò al Senato, un anno fa, riuscì a pronunciare la parola cambiamento cinque volte nelle prime tre cartelle del suo intervento. Era, quello, il governo del Cambiamento. Quello con Matteo Salvini e Luigi Di Maio vice-premier. Erano stati loro, con i loro voti, a legittimare lo sconosciuto avvocato nella posizione di guida del governo. E lui, il Conte vecchio, aveva più volte citato la sua fonte di legittimazione, «formale e sostanziale». «I programmi elettorali presentati alle elezioni e votati dalla maggioranza degli italiani, le votazioni a cui le due forze politiche hanno chiamato i rispettivi iscritti e sostenitori». Il voto del 4 marzo 2018 e i voti della Lega e del Movimento 5 Stelle, via piattaforma Rousseau. Le «istanze reali di chi vive fuori da questi Palazzi». «Il vento nuovo che soffia da tempo nel Paese e che ha prodotto una geografia del consenso politico completamente inedita».
Il Conte nuovo uscito da Quirinale ha esposto la lista delle priorità che gli stanno più a cuore: tutela dell'ambiente, biodiversità, protezione dei mari, energie rinnovabili, beni comuni. Ha citato, tra i suoi obiettivi, «il benessere equosostenibile», qualunque cosa voglia dire.
A chiudere oggi gli occhi sembrava di sentire Greta Thunberg. Deve essere una passione recente perché, il 5 giugno 2018, invece, in un discorso che nel resoconto del Senato arriva a ventuno pagine, la parola ambiente spunta una sola volta, a pagina 12: «In materia di ambiente, l'azione di Governo sarà costantemente incentrata sulla tutela dell'ambiente, sulla sicurezza idrogeologica del nostro territorio e sullo sviluppo dell'economia circolare». Le priorità che infervoravano Conte erano altre. Cosa cambia con questo governo?, si chiedeva. «I nuovi strumenti di democrazia diretta», per esempio. «Cambia che metteremo fine al business dell'immigrazione.
Metteremo fine al business dell'immigrazione, che è cresciuto a dismisura sotto il mantello della finta solidarietà».
Il Conte Nuovo si è invece riferito ai mari in senso ecologico. E a un certo punto ha detto che l'Italia deve diventare «un paese attraente per tutti i giovani che vivono all'estero». Potrebbe allora, nell'attesa che si formi il suo governo, far sbarcare quei giovani che si trovano a bordo della nave Mar Jonio al largo di Lampedusa, bloccati per effetto di un decreto del governo che ancora presiede, il Conte vecchio, su ordine del ministro Matteo Salvini, il piffero di montagna che partì per suonare e finì suonato. La parola immigrazione è sparita dall'agenda di governo. Non ne parla M5S, non ne parla il Pd, si cerca per il Viminale un tecnico. Troppo divisiva, si dice. Da Salvini che punterà tutto sulla distanza dal nuovo governo dalle sue politiche, certamente. Ma anche troppo divisiva di Conte da se stesso.
Il Conte nuovo si è dilungato sulla necessità di rimuovere gli ostacoli che producono disuguaglianze, come prevede del resto la nostra Costituzione, ma - dispiace qui essere fin troppo pedanti - questa parola compariva una sola volta, di sfuggita, nel discorso con cui il Conte vecchio chiese la fiducia al Parlamento. Il Conte nuovo ha ribadito la fedeltà dell'Italia al quadro «euroatlantico» e all'integrazione europea, esercizio non inutile dato lo strombazzare di appoggi che arrivano da Bruxelles e da Washington. Ma il Conte vecchio, a dispetto di quanto rimproverato a Salvini, nel 2018 utilizzò argomenti decisamente diversi: «Ribadiamo la nostra convinta appartenenza all'Alleanza atlantica. Ma attenzione! Saremo fautori di una apertura verso la Russia. Una Russia che ha consolidato il suo ruolo internazionale in varie crisi geopolitiche. Ci faremo promotori di una revisione del sistema delle sanzioni, a partire da quelle che rischiano di mortificare la società civile russa». Gianluca Savoini si sarà spellato le mani, a sentirlo.
Volevate la discontinuità? Più discontinuo di così. La prima opera giuridica del professor Conte si intitola d'altra parte “Matrimonio civile e teoria della simulazione” (1995). È dunque un esperto di contratti apparenti, di nozze per finta. Quale sarà il Conte vero e il Conte simulato? Quesito irrisolvibile e forse irricevibile.
C'è un solo elemento che unisce il Conte vecchio al Conte nuovo ed è Conte stesso. È lui la misura delle cose, il metro di giudizio della sua coerenza. Al Quirinale ha rivelato di avere a lungo discusso con il suo io interiore, se accettare il nuovo o no, e di aver concluso che il problema della coerenza non sussisteva: «Ho superato le perplessità, perché ho lavorato sempre nell'interesse dei cittadini guardando al bene comune e non agli interessi di parte o di singole forze politiche. I principi e i valori che so essere apprezzati e condivisi dagli italiani sono gli elementi di coerenza che mi porto e con cui intendo dare vita a questa nuova stagione e a guidare questo governo». Principi «non negoziabili», ha aggiunto, «senza colore politico». «Di mio», ha concluso, «aggiungerò tanta passione che sgorga naturale nel servire il paese che amo».
A lui sgorga naturale. Il Conte Nuovo punta a essere il nuovo Berlusconi, cui ha soffiato l'incipit del messaggio della discesa in campo? Oppure il nuovo Prodi, come ha scritto qualcuno (l'originale ieri ha benedetto il tentativo dalla festa del Pd di Ravenna)? O la versione italiana e del XXI secolo del francese Charles-Maurice de Tallyerand-Périgord, principe di Benevento: non sono cambiato io, sono cambiati i tempi, e quanto rapidamente. Chissà. Intanto,
vuole costruire il primo governo senza nessuno contro, soltanto per. Per se stesso, naturalmente, ed è riuscito nell'impresa di essere avvocato del popolo e premier senza popolo, sovranista con Salvini, direttista con la Casaleggio, europeista con la Merkel, putiniano con Putin, trumpiano con Trump e ora ottimista, ecologista e vagamente socialista, tipica di ogni fase di transizione del nostro paese, la continuità nella discontinuità delle classi dirigenti, tutti fascisti e poi anti-fascisti. C'era una parte di establishment che si preparava a diventare salviniano, in nome del nuovo padrone, così come un anno fa fu Cinque Stelle. Ora, meraviglia, basterà essere semplicemente contiani, almeno per un po'. Un esercizio più agevole.
Giuliano Ferrara sul “Foglio” tira in ballo la svolta di Salerno di Togliatti, il realismo che conduce a fare il patto con il fronte avversario, ma Conte è un Badoglio senza 25 luglio, senza neppure quello strappo estremo a disfatta ormai compiuta che fu il rovesciamento del Duce dopo il Gran consiglio. Semmai è stato il Truce Salvini che ha sfiduciato lui, senza riuscirci, e che non è prigioniero al Gran Sasso ma è ancora un ministro del suo governo, comodamente seduto al Viminale. Non è tragedia, per fortuna, è commedia. «Conte ha mostrato stoffa, ma gli rimane l'ombra del collaborazionismo (legge Sicurezza ecc.), potrà eliminarla?», ha scritto ieri padre Bartolomeo Sorge. Si, potrà riuscirci: da tutto questo cambiamento e dal vento della novità emerge una figura flessibile, pieghevole, che considera i colori e le identità orpelli da superare, svuota le distinzioni e sterilizza la politica, la rende una schermaglia ideologica e inutile rispetto alla pratica nuda del potere. Un professionista della simulazione e della dissimulazione. Non è nuovo, lo conosciamo bene, è una maschera eternamente italiana.