Non fu una tragedia, la Prima Repubblica. Dunque, sarebbe il caso di non rivestirla oggi di mentite spoglie facendone una farsa.
La tragedia, all’epoca, le girò intorno. Fu il terrorismo, furono le stragi. Fu il conflitto delle ideologie. Fu la fragilità delle istituzioni. Fu, a volte, il traballare dell’economia, tra le ingiustizie secolari, le migrazioni di massa e poi l’inflazione a due cifre, matrice del debito pubblico. Ma la politica all’epoca aveva la capacità di stemperare molte di quelle tensioni espungendo la tragicità dal suo copione - che pure era piuttosto teatrale.
Non ci sarebbe ragione allora di scivolare oggi verso la farsa. Anzi. Si potrebbe parlare di quegli anni senza farne oggetto di un vituperio immeritato e neppure di un rimpianto fuori tempo massimo. Storicizzando quel periodo e mettendo bene in chiaro che esso non si ripeterà -né per chi lo teme né per chi lo spera.
E invece l’argomento risuona, da una parte e dall’altra. E finisce inevitabilmente per assumere un carattere un po’ farsesco. O meglio, le farse sono due - a seconda di chi le interpreta. Una è la denuncia di un pericolo che non c’è più. L’altra è l’annuncio di un ritorno che non ci sarà.
Le delusioni che questa fase politica sta seminando qua e là alimentano di tanto in tanto il rimpianto di stagioni più ricche e felici (almeno politicamente). Ed è quasi fatale che qualcuno tra quanti si proclamano eredi di quel tempo, di quei partiti, di quei leader si metta in testa che prima o poi arriverà il momento della rivincita.
Nascono così iniziative, convegni, proclami, perfino partiti (chiamiamoli così) che si propongono di riaprire i battenti della Prima Repubblica. Senza considerare che tutto il tempo che è passato rende ormai quei luoghi inaccessibili, e che la loro suggestione non dice nulla, ma proprio nulla, alla grande quantità di italiani nati dopo il crollo del muro di Berlino.
L’unico effetto di questo chiacchiericcio finisce così per essere quello di offrire qualche spunto al dispiegarsi dell’altra farsa: quella di chi denuncia il pericolo - inesistente, per l’appunto - di un ritorno a quel passato. E così, per ogni Dc, ogni Psi, ogni Pci (o ogni “cosa”) di cui si proclama l’imminente resurrezione, spunta subito un cantore delle novità di questi ultimi anni che si dedica a cacciare fantasmi immaginari e privi di ogni reale pericolosità politica.
Così le due mezze farse si alimentano l’un l’altra, facendosi forti tutte e due dei rispettivi spettri. E più la politica viene raccontata come il ritorno del sempre uguale (copyright Nietzsche) più ci troviamo a fare i conti con gli ayatollah del nuovo che insorge contro il vecchio. Se non è più il morto che afferra il vivo (copyright Marx), diventa il vivo che maramaldeggia sui suoi antenati già sepolti.
Dovrebbe essere la proporzionale il filo che lega tra loro questi due passati, vissuti ora come un sogno e ora come un incubo. Trascurando però il fatto che la regola della rappresentanza proporzionale ha un senso se poggia sulla forza dei partiti strutturati, ne ha molto meno se poggia sul vuoto del loro ricordo.
Forse allora sarebbe auspicabile che tutte e due queste mezze farse venissero tolte di torno. La Prima Repubblica, confronto al dopo, resta per molti di noi un giardino fiorito. Ma non tornerà. E dunque si potrebbe evitare sia di rimpiangerla più di tanto sia di demonizzarla come fosse un destino ancora in agguato. Ci sono pur sempre modi più sereni di fare i conti col passato e non andrebbero trascurati.
In fondo, chi custodisce la memoria ha il dovere di non ridurre tutto a caricatura. E chi pretende di far meglio ha il dovere di rendere la strada di oggi più dritta e sicura di quella di prima. Tutte cose non facili, si dirà. Ma forse neppure impossibili.