Corteggiato, atteso per la presidenza del Consiglio o quella della Repubblica, quindi temuto e ora isolato. Non ha usato la politica ma la politica ha usato lui. Ma l’ex presidente della Bce prepara le contromosse

«I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro: condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. La folla, numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada, altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano. Mentre egli entrava a Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione: chi è costui? E la folla rispondeva: è il profeta Gesù».

A differenza di quanto previsto dai suoi esegeti, Mario Draghi non ha ricevuto un’accoglienza simile al rientro in Italia, lo scorso anno, per l’esattezza il 31 ottobre 2019, dopo il mandato di otto anni alla Banca centrale europea. Anch’egli si era esibito in un prodigio: salvare l’Euro con tre parole. «Whatever it takes», a qualsiasi costo. Che poi è pure il titolo di una fortunata canzone di un gruppo di Las Vegas che si chiama - e non è un tributo a Draghi - Imagine Dragons. Ciascun opinionista di ciascuna corrente televisiva vaticinava un’imminente levitazione di Draghi verso gli apici istituzionali, una sorta di barelliere pronto a soccorrere un Paese squattrinato e inaffidabile. Adatto, subito, per la presidenza del Consiglio e, all’alba del 2022, per la presidenza della Repubblica. Invece non è accaduto. Al contrario Draghi ha raccolto attorno a sé il convinto dissenso di gran parte del governo giallorosso. A cominciare dal premier Giuseppe Conte, per proseguire con Dario Franceschini, ministro della Cultura. Tutti spaventati da un’ipotesi che vanifica le loro aspirazioni. Allora a Draghi tocca sentirsi evocare da estimatori e detrattori, dopo la prima fase di Covid e ancora in questi giorni, come l’ultima cura a un’economia italiana che rischia di stramazzare. Quella che va somministrata in circostanze tragiche e inevitabili, che rassicura l’Europa contabile e burocrate, ma che aiuta i partiti a sottrarsi alle proprie responsabilità. Le raffiche di Dpcm e sussidi piacciono, le scelte coraggiose - che in politica significano impopolari - fanno paura. In un anno Draghi non ha usato mai la politica, ma la politica l’ha usato. Anzi, l’ha già consumato.

Il CAUTO RITORNO E LA PANDEMIA
Il governo Conte II s’è formato durante il periodo di congedo di Draghi da Francoforte. Nessuno ne pronosticava una lunga e fiera esistenza. Come nessuno poteva pronosticare una pandemia. Il Conte II fu generato per arginare Matteo Salvini su esplicita raccomandazione dell’Unione europea. Giancarlo Giorgetti, il più scafato dei leghisti, ha arruolato presto Draghi. E così Matteo Renzi. E anche Luigi Di Maio, nella fase di metamorfosi da populista a governista, l’ha trattato con riguardo. Già il 18 dicembre, in occasione del ricevimento natalizio al Quirinale, la rivalità fra Conte e Draghi si è trasferita sui media con la maliziosa annotazione di Palazzo Chigi: «Nessun contatto tra i due».

Il Covid ha bloccato le funzioni politiche dei partiti di maggioranza e rafforzato le pensose esitazioni di Conte. Il 25 marzo Draghi si è concesso l’unica apparizione pubblica nel momento più tragico della pandemia sul quotidiano inglese Financial Times: «Questo virus è una guerra. Dobbiamo proteggere le persone dalla perdita di lavoro. Lo Stato deve proteggere i cittadini». Appena si è parlato di ripresa, si è riparlato di Draghi, classe ‘47, srotolando la sua carriera al ministero del Tesoro, a Bankitalia fino alla Bce, omettendo i tre anni, per molti non edificanti, in Goldman Sachs, la banca d’affari americana.
 

18/10/2019 Roma, Funerali di Paolo Bonaiuti nella foto Paolo Gentiloni

Draghi è un uomo assai prudente e altrettanto abile nel tessere relazioni: ai tempi della Bce, per ottenere puntuali resoconti sul potere romano, riceveva in una saletta riservata di un albergo vicino alla sua abitazione al quartiere Parioli. (Altra epoca, dieci anni fa, quando a cena da Bruno Vespa partecipò all’abbordaggio del ribelle Pier Ferdinando Casini con il premier Silvio Berlusconi, il cardinale Tarcisio Bertone e il banchiere Cesare Geronzi). Per un eccesso di accortezza, stavolta, e di rispetto istituzionale, Draghi non ha smentito le fumose trame di palazzo e però ha cibato, col mutismo, illazioni sulle sue ambizioni e le sue strategie. E Draghi sa che proferire verbo su Chigi e, soprattutto, sul Colle può sembrare sgarbato nei confronti di Sergio Mattarella.

Anche vecchi estimatori di Draghi come Gianni Letta, la mente di Silvio Berlusconi in politica, l’ex premier Paolo Gentiloni, vicepresidente della Commissione europea e lo stesso Giorgetti sanno che per portare Draghi a Palazzo Chigi esistono soltanto due condizioni: che ci sia un mandato preciso, che ci sia una larghissima maggioranza in Parlamento. La prima condizione presuppone una situazione di emergenza economica. La seconda che i ministri giallorossi consegnino i loro posti ai tecnici. Di sicuro la seconda condizione è più improbabile della prima. È il ceto politico del Pd che si potrebbe opporre con più fermezza a Draghi, persino più dei Cinque Stelle, che ormai rigettano il corpo estraneo Conte. Il segretario Nicola Zingaretti non ha rapporti con Draghi. Quando Mario fu nominato alla Bce, Nicola era presidente della provincia di Roma. Il ministro Franceschini è dubbioso fra mirare alla successione di Conte a Chigi oppure a quella di Mattarella al Colle: comunque, meglio tenere Draghi a distanza. Identico sentimento degli altri papabili per il Quirinale, da Romano Prodi a Walter Veltroni.
 

GIANCARLO GIORGETTI

IL PRIMO (FALLITO) ESPERIMENTO
Un tentativo per comprendere e orientarsi, però, l’ex Bce l’ha fatto d’estate. Ha incontrato Luigi Di Maio al ministero degli Esteri - anche per il tramite di Elisabetta Belloni, il segretario generale della Farnesina - e da quel 24 giugno l’interlocuzione è proseguita e si è irrobustita. Ha dialogato molto con Giorgetti e ancora di più con Letta. Ha partecipato al Meeting di Comunione e Liberazione in cui si è esibito in un discorso su debito buono e debito cattivo, contro i sussidi e per i giovani, che ha scaldato i retroscenisti, ma non ha trascinato la politica. Incassato il dileggio di Conte («Gli proposi la commissione europea, mi disse che era stanco e voleva risposarsi»), Draghi si è ritirato nel suo silenzio e si è concesso un anno abbondante di attesa. Almeno finché non si delineano le manovre per il Quirinale.

Tant’è che ha rifiutato proposte milionarie per guidare banche d’affari tipo Goldman Sachs. Ogni tanto ritira una onorificenza come la Gran croce dell’Ordine al merito di Germania o viene inserito in prestigiose organizzazioni come la Pontificia accademia delle scienze sociali. Quest’ultimo riconoscimento, vidimato da papa Francesco, è una formalità poiché Draghi non partecipa agli eventi dell’Accademia presieduta da Stefano Zamagni, economista amico di Romano Prodi, ma ha un canale diretto con Jorge Mario Bergoglio e la segreteria di Stato. Per intenderci: Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, ha esaltato in un ampio servizio gli otto anni alla Bce. Il 13 novembre, se la pandemia lo permette, Draghi sarà l’oratore principale di una conferenza all’Accademia dei Lincei per l’assegnazione dei premi “Antonio Feltrinelli” poiché ha vinto nella categoria internazionale “Istituzioni monetarie”. E quelli che in politica interpretano ogni sibilo, come fa Letta, saranno lì ad ascoltarlo. Palazzo Corsini non sarà Gerusalemme, ma non mancano le palme.

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