Carofiglio e i suoi fratelli. A Roma impazza il toto-nomi per il dopo Raggi
Folle corsa a trovare qualcuno che corra alle prossime comunali. Il M5S non sa che fare con la sindaca. Anche nel Pd regna il caos. Tra spettro delle primarie e suppliche, c'è chi evoca anche lo scrittore che ha perso lo Strega, per un soffio: sarebbe quindi un candidato perfetto per la sinistra
di Susanna Turco
5 ottobre 2020
virgi-jpgQuando a gennaio 2020 ci provarono con Chiara Gamberale, la scrittrice prima di declinare la proposta di diventare presidente del Pd, esclamò: «Però, hanno fantasia!». Non si capisce se stavolta sia fantasia o mancanza di fantasia, speranza o disperazione o il risorgere della solita mitologia della società civile. Ma nel partito democratico, a otto mesi dal voto per il nuovo candidato sindaco di Roma , a quattro dalle elezioni primarie (se si faranno, e tutti lo escludono) si è arrivati ad evocare la figura di un altro scrittore: Gianrico Carofiglio.
L’ipotesi si carezza riservatamente, il nome si pronuncia negli incontri che contano per sondarne la potenzialità. Intellettuale, con esperienza politica, caratura nazionale, non romano: queste le caratteristiche magnificate, peraltro le stesse che sedussero nel 2016 l’immaginazione di Massimo D’Alema, quando pensò di candidare l’ex ministro della Cultura e presidente della Treccani Massimo Bray (al dunque, questi rifiutò). Quanto a Carofiglio, 59 anni, barese, ex magistrato, ex senatore Pd, appassionato di arti marziali, ha appena perso la finale dello Strega: sconfitto per un soffio, quindi un candidato perfetto per la sinistra. Sostenitore sin dal 2018 dell’alleanza M5S-Pd, disse a settembre 2019 del governo giallo-rosa che era «abbastanza orientato a sinistra». Adesso ha pure un saggio appena uscito in libreria, un breviario sulla politica “Della gentilezza e del coraggio” e dice che «bisogna ricostruire non tanto una coalizione, ma un sistema di passioni». Fermento della società civile o marketing librario? Ah, saperlo. caro-jpg C’è da dire che, politicamente, l’equilibrio post elezioni regionali, con quel 3 a 3 strappato alla faccia di più foschi pronostici, è tale da spostare tutto avanti. Almeno per quel che riguarda la partita per il Campidoglio, zingarettianamente, se ne comincerà davvero a parlare più in là, nel 2021, magari verso febbraio, visto che i risultati del voto non impongono l’accelerazione drammatica che pure si era temuta. Al momento, tipicamente, vige quindi il caos più totale. La cui premessa non sta, per una volta, nel Pd, ma fuori dal Pd: la sindaca grillina Virginia Raggi si è autoricandidata costringendo i vertici di M5S a venirle dietro, molti nei Cinque stelle sono contrari, a partire dalla faraona Roberta Lombardi che punta alla Regione post Zingaretti; non pochi trattano la sindaca come un «ingombro», ma ancora non è chiaro chi l’avrà vinta; il che al momento crea una totale schizofrenia anche da quelle parti.
E, sull’altro fronte, autorizza i democratici ad allestire tutti gli scenari possibili. Se è vero, infatti, che una ricandidatura da parte di Raggi allargherebbe drammaticamente la forbice tra M5S e Pd, non consentendo di mettere in piedi alleanze di sorta («la sindaca è indifendibile e inspiegabile», surrurra un deputato dem esperto di questioni romane), è altrettanto vero che entrambi i partiti sperano nel suo ritiro. Nei Cinque stelle si conta sulla ampia capacità di proporre per consolazione posti di sottogoverno, dai sottosegretari ai verificatori del Recovery Fund di cui ha accennato il premier Giuseppe Conte giorni fa (andrebbe bene, nel caso, anche per un’altra da ricollocare: la sindaca di Torino Chiara Appendino). Nel Pd si conta sul progressivo crollo elettorale dell’intera armata grillina - come del resto sta accadendo da due anni a questa parte - per poterla gestire meglio: non per caso, c’è chi già parla di Raggi usando il tempo passato.
Una qualsiasi forma di tregua tra i due partiti, comunque, aprirebbe il campo a forme di collaborazione ancora tutte da declinare. Dall’ipotesi massima di quasi fusione, per cui c’è chi arriva a sognare persino una lista unica Pd e Cinque stelle addirittura al primo turno (l’ipotesi, vista da taluni come semplicemente «suicida», è per altri il necessario passo avanti verso il prosciugamento totale degli stellati), fino all’idea di una meno ambiziosa convergenza per il ballottaggio. Al fondo c’è comunque una «pacificazione», una deposizione di armi che è il nocciolo della posizione di Luca Bergamo, ex veltroniano, vicesindaco di Raggi, iscritto né di qua né di là, dunque anticipatore del modello giallo-rosa che è alla base delle stesse sue personali ambizioni di corsa per il Campidoglio; ma è anche la posizione di una figura di sinistra come Massimiliano Smeriglio, braccio destro di Zingaretti. Ed è, in fondo, il modello applicato in Regione dallo stesso segretario dem: una sintonia che parte dalla laica convergenza su alcuni temi, e non si sa dove può andare a parare.
Di concreto, però, c’è allo stato l’impazzimento dei nomi, in un centrosinistra nel quale, incredibilmente, in questi anni di autobus incendiati, cassonetti straripanti e gabbiani rapinosi, nessuno ha costruito una nuova classe dirigente, un percorso rigoroso, un’alternativa per quello che pure Goffredo Bettini definisce un posto che vale «più di un primo ministro». Pare ad esempio che David Sassoli ormai rida di gusto quando gli si chiede se sia pronto a candidarsi: eppure la pressione su di lui è fortissima e fa leva, da ultimo, sulla scarsa probabilità di essere riconfermato presidente del Parlamento europeo per la seconda metà della legislatura europea - stante una forte pressione del Ppe per avere quella casella nel 2022.
Certo non è tenero per lui il ricordo delle primarie del 2013, quando restò inchiodato trenta punti sotto Ignazio Marino (e appena sopra l’ultimo arrivato, Paolo Gentiloni) nonostante i visionari video in cui andava in giro citofonando alla gente, modello Matteo Salvini ante-litteram. Purtuttavia sarebbe utile un suo ritorno, in un Pd dove è tornato a scintillare il patto di sindacato di era pre-renziana, e dove ciascuno è uscito rafforzato dagli ultimo giro di carte elettorali, dal capodelegazione Dario Franceschini che punta al Quirinale fino al vicesegretario Andrea Orlando che punta alla segreteria, passando per Graziano Delrio che vuol entrare al governo e per finire con Zingaretti medesimo che come al solito aspira a restare fermo, immobile. A Roma, del resto, visti i pessimi risultati del 2016 basterà pochissimo per andare bene, e dire che si è vinto. Ed ecco dunque il partito di Zingaretti - nel quale l’ipotesi della consigliera regionale Michela Di Biase non è mai tramontata - puntare ancora su una candidatura del capo della polizia Franco Gabrielli: una pratica gestita da Orlando, ma anche da Bettini, che si vuol ufficialmente chiusa ma che - secondo alcuni - è soltanto «socchiusa».
Impazzano dunque nel frattempo le candidature per le primarie. Democratiche, larghe, di partito, di coalizione: non si sa. In dubio, pro agone. Del resto, nelle dimenticate primarie dell’ultima volta, oltre al radicale dem Roberto Giachetti, c’erano personaggi di cui s’è persa quasi ogni traccia: Domenico Rossi, Chiara Ferraro, Stefano Pedica, Gianfranco Mascia - che impostò la sua campgna di comunicazione poggiandosi su Mascia e Orso.
Adesso, invece dell’orso c’è l’animalista, vegetariana, femminista Monica Cirinnà, campionessa dei diritti civili - avendo dato il nome alle unioni civili - già partita per un «giro d’ascolto per la città», dal calcio sociale di Corviale ai lavoratori dello scalo di Fiumicino, passando per metro e autobus, determinata a «mettere al servizio di Roma vent’anni trascorsi in consiglio comunale e sette in Senato», alla faccia dell’antipolitica. Pronto anche il consigliere regionale Paolo Ciani, Sant’Egidio, capofila del gruppo Demos, che è sceso in campo anche contro «l’umiliante ripetizione di no» e per difendere la proposta di un profilo civico: «Non serve superman, serve una persona che con umiltà ricostruisca tanti pezzi di cose che non funzionano più», spiega. ciri-jpg
Nel taccuino dei corridori, dopo tanti dinieghi più pesanti, ci sono - e figuriamoci -i presidenti degli unici municipi riconquistati dal Pd: in testa Giovanni Caudo, già assessore all’urbanistica con Marino, e Amedeo Ciaccheri, che guidano rispettivamente il III e il XIII, strappati al M5S in questi anni. Dignitose esperienze, che tuttavia nessuno dal partito si è curato di elevare per tempo oltre i confini municipali.
A questo carrozzone di nomi, potenzialmente infinito, vanno poi aggiunti coloro che si preparano alla corsa laterale, nel caso appunto che l’accordo tra partito del Nazareno e Cinque stelle si faccia davvero, liberando spazio sia al centro che a sinistra del Pd. In quel caso, fuori dall’alleanza resterebbe tutta l’area di Sinistra italiana, i renziani e Azione. C’è Carlo Calenda, un nome che tanti romani pensano essere il punto d’approdo dei contorcimenti dei prossimi mesi, nonostante lui abbia più volte chiarito di non volersi candidare, dicendosi anche pronto a proporre «un nome di altro profilo» come ha promesso prima delle regionali. In concreto per Italia Viva circola già il nome di Luciano Nobili, già organizzatore della campagna elettorale di Roberto Giachetti nel 2016, deputato blindato in lista alle politiche 2018, tutt’ora talmente entusiasta per un tempo solidamente passato da far circolare sui social l’immagine di quella sera in cui giocò a calcetto con Matteo Renzi, Luca Lotti, Matteo Orfini, con il Rottamatore ancora saldamente alla guida di Palazzo Chigi e iscritto allo stesso partito degli altri tre.
C’è un outsider come Tobia Zevi, che dall’inizio dell’estate sonda gli umori circa una sua discesa in campo e non sembra intenzionato a rinunciare. C’è, in ultimo, Federico Lobuono, classe 2000: giovane renziano dei Pischelli in cammino, fu citato per la prima volta da Renzi al Lingotto di Torino nella primavera 2017, da allora è stato iscritto a Pd e Iv, adesso è fuori da entrambi perché, ha scoperto, «i partiti sono chiusi». E ora, quindi, scende in campo autoproclamandosi «più giovane candidato sindaco di Roma», con conseguente copertura mediatica. Peccato non abbia scritto un saggio anche lui: nel Pd di Zingaretti, dove tutto è possibile, lo prenderebbero certamente in considerazione.