Nostalgia, democrazia, Miriam Mafai, cattedrali, fisicità della politica: il portavoce di Dalema a Palazzo Chigi racconta cosa è rimasto del partito comunista

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Sorpresa di fine 2020: quello che rimane da raccontare del comunismo italiano è uno stato d’animo. Il “nostro Pci”, più che il Pci. Sorpresa numero due: a sostenerlo, dal fondo del suo cinico disincanto, è Fabrizio Rondolino, giunto ormai da oltre tre anni a una certa distanza dalla politica, che cominciò a frequentare nel 1976 per poi smettere quarant’anni dopo (è stato Matteo Renzi l’ultimo, letale, entusiasmo). Portavoce di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi, giornalista dell’Unità che seguì l’Achille Occhetto della Svolta, ha appena dato alle stampe un libro fotografico, la sua collezione personale di cimeli e immagini, dal titolo emotivo: “Il nostro Pci”, che uscirà con Rizzoli proprio nei giorni del centenario della Svolta del ’21: «Io volevo chiamarlo “storia sentimentale del Pci”: ma Staino è uscito prima mi ha fregato il titolo», chiarisce subito lui, giusto ad esemplificare quanto sappia essere sentimentale.

Era davvero una grande comunità, un mondo: alla fine degli anni Settanta, racconta, aveva quasi due milioni di iscritti, 130 mila dirigenti, oltre 12 mila sezioni. Praticamente un esercito.
«Un equivalente oggi non c’è: ciò che più si avvicina è lo scoutismo, al netto della fede. Era un mondo molto valoriale, una vera e propria comunità, caratterizzata da solidarietà interna, meccanismi di cooptazione, intensa attività anche pratica: certo, noi non andavano a fare i campeggi sui monti».  

Neanche vi fumavate le canne.
«Nella Fgci erano proibite, il partito era contro. A me non dispiacevano, per la verità: avevo un giro di amici gruppettari con cui farmele, ma senza dichiararlo. Il che dice del livello di moralismo. Comunque, a differenza degli scout, facevamo diffusione della stampa comunista e comizi volanti»

Come se la cavava?
«All’inizio, a fare i comizi, mi vergognavo come un ladro: salivo su una cassetta, al mercato di Piazza Madama Cristina, a Torino, mettevamo il tavolino, fermavamo le persone. Erano gli anni della solidarietà nazionale, avevamo il problema di convincere il popolo che non avessimo fatto una stupidaggine. Vendevamo l’Unità porta a porta: suonavi, a volte non ti aprivano, altre volte ti fermavi a chiacchierare. Erano modi per creare occasioni di scambio, ma questa dimensione è completamente smarrita, non è neanche pensabile, oggi»

Adesso c’è la rete, i social network, quello scambio si svolge là.
«Non c’entra niente, è virtuale: mentre la politica ha una sua specificità, è fisica. E non può cambiare. Persino i grillini della prima ora si sono costruiti sui Meet up, anche Obama vinse non per la rete ma per la straordinaria quantità di attivisti. Per altro verso, il crollo del renzismo si deve all’assenza non di una cultura politica - perché le culture politiche si inventano - ma di una organizzazione fisica, capillare. Che ti serve a spiegare quello che stai facendo».

Lo si può fare con una diretta Facebook, come Luigi Di Maio.
«Non è la stessa cosa, perché siamo mammiferi: quando le nostre coscienze saranno caricate su un grande server, diventeremo immortali e non avremo bisogno, ma finché abbiamo un corpo ci dobbiamo vedere. La politica non ha “grip” senza contatto fisico. Tu come recettore del messaggio non riesci a scegliere tra due posizioni: puoi scivolare indifferentemente tra una e l’altra, perché sono entrambi virtuali, non agganciate a nulla. Negli Usa la campagna elettorale è stata fisica, nonostante il Covid, anche questo è un paradosso: noi facciamo gli show, loro il porta a porta»

Quella collezione di aneddoti, immagini, cimeli che sta nel “Nostro Pci” appartiene a un mondo estinto?
«Quella comunità non solo non c’è più, ma nemmeno può tornare: e non perché quelli di adesso siano meno bravi. Piuttosto, perché tutto si reggeva su un equivoco drammatico, che era il comunismo. C’era questo vasto orizzonte che era la rivoluzione mondiale, alla quale nessuno credeva». 

Proprio nessuno?
«Nella nostra sezione, a Torino, c’era il compagno Borio, il cassiere: filosovietico sempre, anche quando invasero l’Afghanistan riuscì a dire che dovevamo stare con loro. Ma era l’unico: per tutti noi l’Unione sovietica era… Mah. Negli anni Settanta era una superpotenza: c’erano dei legami economici, politici, ma nella soggettività dei militanti non c’era un legame vero. Difficile spiegarlo. Eravamo legati agli stessi simboli, questo sì, ma poi noi eravamo comunisti italiani. Veltroni, quando disse di non essere mai stato comunista, diceva questo secondo me: l’essere italiani ci consentiva di vivere questa contraddizione. Pensavamo, soggettivamente, di essere un’altra cosa, ma il legame oggettivo era evidente. Questo ha creato una crepa tragica: la contraddizione non è mai stata sciolta. E nessuno di noi si è più ripreso, dopo la fine del Pci: siamo tutti un po’ stonati. Tutti quelli che ci sono stati, anche i più cinici, quelli usciti dal Pci nel ’56, ancora portano un po’ addosso questa dimensione mitica».

Cosa c’è di mitico?
«La grandezza: tutti i partiti comunisti sono gruppuscoli, sette, non hanno lasciato particolare traccia. Invece i comunisti italiani sono stati abbastanza grandi da poter essere effettivamente autonomi, rispetto al mondo circostante. E ti sentivi al sicuro perché c’erano tante cose, dimensioni, scontri, battaglie: i comunisti stavano sempre a mugugnare, altro che monolitismo, dentro c’erano discussioni aspre. Eravamo tutti contro il compromesso storico, ad esempio. Io l’ho vissuto malissimo».

E non è nostalgia, questa?
«Non mi considero un nostalgico, se non per il fatto che si trattano di ricordi di gioventù. C’è questa cosa che disse la Mafai, in cui mi ritrovo: non rinnego e non rimpiango. Non è qualcosa da cui mi separo, ma la nostalgia implica riproducibilità, qualcosa che vorresti ci fosse ancora, o ricostruire. Mentre è evidente che si tratta di una esperienza non riproducibile».

Più che nostalgia, questa sembra contemplazione estatica.
«È come se uno guardasse una cattedrale: è stato ampiamente dimostrato che Dio non è esiste, però vedi una cattedrale, o Giotto, restano opere magnifiche. Dobbiamo però anche guardarci da un tipico effetto della nostalgia, pensare aver vissuto una esperienza del tutto unica: se chiedi a un vecchio democristiano, socialista, fascista, magari la racconterà con parole e sentimenti non molto diversi dai miei».

Allora forse è la prima Repubblica, di cui si sente la mancanza?
«Volendo generalizzare, quello che manca a tutti noi è il sistema dei partiti, cioè l’idea che la democrazia non è “votare”: quella è una stupidaggine. La democrazia, come diceva quel tipo, è partecipazione».

Stiamo ancora a Gaber?
«Beh sì: e può essere anche che quest’idea tardo novecentesca non sopravviva, ma comunque la base della democrazia è che milioni di persone si organizzano in gruppi, movimenti, partiti, e in questo modo partecipano di decisioni collettive. Naturalmente alla fine le decisioni sono dei capi: il problema è se prima passino per un processo collettivo, oppure se siano scelte dettate da logiche interne al ceto politico. Ecco il vero discrimine: e questa roba qua il sistema dei partiti la faceva. Il Pci aveva quasi due milioni di iscritti, la Dc una milionata, nel Psi mezzo milione, il Msi non lo so, poi metti il sindacato: alla fine, almeno dieci milioni di italiani con una tessera una volta l’anno erano coinvolti in qualcosa, un’assemblea, un congresso, un volantinaggio. Quest’esercito è la democrazia, questi milioni, non il voto. E non c’è più».

Con il che latita anche la democrazia?
«Certo. Non è un caso se da un lato abbiamo la disaffezione, sempre meno gente che va a votare, e dall’altro partiti che durano un paio d’anni, ogni leader si fa il suo, la linea politica viene capovolta ogni ventiquattr’ore in modo del tutto casuale. Perché non c’è niente sotto, è uno spettacolo di burattini, ormai anche senza pubblico. Poi intendiamoci anche i comunisti di giravolte ne hanno fatte, a cominciare da quella fondamentale: il tuo dna è fare la rivoluzione, la tua prassi è il consociativismo».

Meglio la teoria o la prassi?
«La rivoluzione è un sogno romantico, niente altro. Un mito da coltivare. La politica è ottenere un risultato, fare accordi con chiunque si possa».

E così siamo finiti, rapidamente, all’elogio del consociativismo.
«Quello che sprezzantemente viene chiamato consociativismo è il mito dell’unità nazionale che ha sempre attraversato la sinistra - arrivando persino a Bersani - nella sua declinazione togliattiana: significa che tu dall’esterno del governo riesci a condizionare alcune scelte, per la tua parte. Tutto questo finisce con l’ultimo Berlinguer che è quello che fuoriesce dal togliattismo».

Un momento: Rondolino era un giovane togliattiano?
«Lo ero a mia insaputa. Togliatti è il Pci: o sei togliattiano o non c’è il Pci, tertium non datur. Da ragazzo invece mi sembrava una figura fredda, astratta. Ero berlingueriano: tutti ci siamo iscritti al Pci perché c’era Berlinguer, che comunque era quello che ci faceva vincere. Il mito di Berlinguer, che oggi sembra ridondante, aveva una radice essenziale: la vittoria. Ed è una figata vincere, soprattutto a 17 anni».

Ma poi?
«Quando, dopo Moro, tramonta la solidarietà nazionale, Berlinguer - pur in uno scenario pessimo - fa una scelta sbagliata: fuoriesce dal togliattismo, cioè dall’idea che i conflitti si ricompongono sempre dentro la cornice unitaria dellaCostituzione, della repubblica nata dalla Resistenza».

E rilascia la famosa intervista sulla questione morale.
«Ecco, come disse quel giorno Nilde Jotti, quando pone il Pci sul Monte Sinai, quando lo mette fuori dal sistema dei partiti denunciato come corrotto, Berlinguer condanna il suo partito all’inutilità, alla sterilità. Come i grilini della prima ora che aspiravano al 51 per cento: significa rinunciare a fare politica. Il Pci diventa una organizzazione identitaria, in cui ti ritrovi perché è fico, perché sono tutti compagni, perché abbiamo ragione, per tutta una serie di considerazioni che non sono politiche: sono sentimentali. Quella rottura così senza appello, fu un errore tragico. Dal quale derivò poi l’arroccamento del pentapartito, la sua degenerazione, Tangentopoli».

Tutta colpa di Berlinguer?
«No, sarebbe ingiusto. La sinistra italiana, quindi Berlinguer e Craxi, non ha saputo trovare la strada per la fuoriuscita politica dall’impasse: ma, essendo un comunista, do la colpa più a noi che non ai socialisti, i quali e avevano un problema sopravvivenza. Eravamo i fratelli maggiori».

E chi aveva ragione?
«Nel merito i socialisti. Colgono un elemento della modernità che comunisti non sono capaci di cogliere: l’affermarsi anche in Italia dell’individualismo, dell’edonismo reaganiano. Craxi su questo costruisce il suo successo. Invece il Pci si spaventa: perché l’individualismo è l’ha sempre guardato male , e non si è saputo aggiornare. Così poi ti chiedi: ma tutti questi intellettuali, e la scuola delle Frattocchie, l’Istituto Gramsci, gli Editori Riuniti, Rinascita, l’apparato, i registi, gli scrittori, i Moravia, erano tutti comunisti ma a che servivano? Ce ne fosse uno che avesse capito quel che Claudio Martelli, nella conferenza sui meriti e i bisogni a Rimini aveva non solo capito ma anche brillantemente esposto».

L’anticraxismo è poi stato ereditato da Achille Occhetto.
«E nel frattempo a sinistra c’era oramai una guerra civile, per cui nella Svolta dell’89 invece di fare quello che andava fatto, cioè diventare socialisti, ci siamo inventati quest’altra roba di andare oltre, riesumando terza via di Berlinguer, che era comprensibile come tattica negli anni Settanta, ma come elaborazione teorica assai debole. Perché alla fine delle due l’una, o sei comunista o sei socialista: e se smetti di essere comunista devi diventare socialista, non c’è molto altro».