Nei giorni di quarantena non chiudiamo anche il pensiero
L’igiene del corpo è necessaria, ma anche quella dello spirito. Perché mai come adesso è necessario stare vicini, contaminarci, non renderci immuni uno all'altro
Sono entrato quache mattina fa in una chiesa deserta, c’era soltanto una donna inginocchiata con la mascherina e davanti all’altare il libro aperto sulle letture del giorno, con le parole del profeta Daniele: «Ora non abbiamo più né principe, né profeta, né capo, né luogo per presentarti le primizie e trovare misericordia...». Mi sono sentito rappresentato. Non abbiamo più luogo. E tra le tante primizie che ci mancheranno in questa prima domenica di primavera c’è anche la giornata della memoria e di impegno contro le mafie che Libera organizza ogni anno il 21 marzo. Durante l’appuntamento, nel 2020 si doveva svolgere a Palermo, si leggono i nomi delle vittime della violenza mafiosa, un elenco interminabile dove gli sconosciuti affiancano i magistrati eroi. Non ci sarà neppure Davide Salluzzo, che dell’associazione di don Luigi Ciotti è stato coordinatore lombardo, stroncato in modo fulminante nella sua regione proprio in questi giorni tragici che è aggredita dal coronavirus.
Non so se in futuro riusciremo a ricordare anche i nomi delle vittime italiane dell’epidemia: sono tanti, troppi. Non avrei mai creduto «che morte tanta n’avesse disfatta». Sono i numeri del bollettino di guerra quotidiano della Protezione civile, ogni giorno alle 18, mentre per farsi coraggio partono le musiche su balconi e terrazzi. Se ne va la meglio gioventù con i capelli bianchi, quella che ci lascia nel cuore Gigi Riva con il suo struggente blues dal suo paese, Nembro, uno dei più feriti dal covid-19, Bepi, Bepo, Pierina, Ivana e altri più acerbi di età, ma non di speranze e di voglia di vita. In questi giorni in cui anche la sepoltura è negata, il gesto di Antigone che possiamo fare è soltanto questo: restituire i nomi, le storie, i volti a quei poveri corpi che pochi giovani cronisti sul fronte, come inviati di guerra, ci stanno raccontando.
Non so se riusciremo mai a ricordarli tutti, caso per caso, creatura per creatura, come scriveva Pier Paolo Pasolini, ma non dimenticheremo mai queste giornate. E dovremo fare memoria profonda degli eventi che ci stanno attraversando. Lo storico Alessandro Barbero, intervistato da Mario Calabresi in Altre/Storie, ha ricordato che non tutte le epidemie hanno cambiato la storia del mondo: non fu così per la febbre spagnola del 1918 e neppure per la peste nera del 1348 o del 1630. Nel numero speciale dell’Espresso di questa settimana raccontiamo i paesi dell’Europa e del mondo di fronte all’emergenza, i sistemi economici della globalizzazione che tremano, le leadership fragili e impaurite, da Emmanuel Macron a Donald Trump. Solo una cosa resta immutabile, l’indifferenza nei confronti dei profughi e dei dannati della terra, come spiega Francesca Mannocchi nel suo reportage da Lesbo che chiude il giornale, a ideale controcanto delle nostre paure. Ma è ancora presto per capire se sarà una tragica parentesi o una faglia che dividerà un’epoca dall’altra, il mondo prima e dopo il virus.
Di certo stanno cambiando, per tornare all’Italia, il nostro modo di percepire la realtà, l’agenda delle priorità, il metro di misura. Il lavoro e l’economia, la mobilità e le infrastrutture, la cultura e il turismo. La salute e le competenze. È il Paese che ci descrivono da anni Ilvo Diamanti e Nando Pagnoncelli, con i suoi contrasti storici e le sue potenzialità nascoste. Oggi stiamo utilizzando la riserva più importante, il nostro capitale sociale, sentiamo tutti il bisogno di ripeterci una lettura densa di carica positiva: gli italiani che nella difficoltà ritrovano la voglia di essere comunità, di sentirsi Stato, nazione, patria. Le bandiere, l’inno, il sentirsi uniti dalla stessa battaglia. L’Italia certificata come modello per gli altri paesi che stanno affrontando il virus dalle grandi agenzie internazionali, a partire dall’Organizzazione mondiale della Sanità. Mentre viene meno il punto di riferimento dell’Europa, mai sentita così distante come in questo ultimo mese. Si spengono giustamente sul nascere tutte le polemiche che in altre circostanze sarebbero invece dilagate: lo scontro tra il governo di Roma e le regioni, il divario tra il nord e il sud (lo racconta il viaggio di Susanna Turco nel meridione), i poteri speciali per il commissario straordinario sottratto ai controlli, come quello della Corte dei conti. Ma tutto questo sarebbe retorico e consolatorio, se non provassimo a volgere lo sguardo più in avanti, esprimendo qualche altra domanda, qualche altra inquietudine.
Città irreale, terra desolata è questo paesaggio italiano stupendo e irriconoscibile, perché recintato e vuoto. L’emergenza è affrontare la battaglia sanitaria, con il fronte di medici e infermieri in prima linea che si raccontano nel reportage di Fabrizio Gatti e nel servizio di Gloria Riva. Nelle retrovie c’è un paese in isolamento, dove rischiano di più i deboli e dimenticati: gli ultimi e i senza casa, certo, ma poi i lavoratori precari, i residenti nelle periferie urbane in cui scarseggiano non dico le terrazze ma perfino i balconcini per affacciarsi e festeggiare, i bambini e i ragazzi che restano senza le loro scuole, nonostante la creatività degli insegnanti, ecco un altro mondo sceso in campo (vedi il servizio di Sabina Minardi). Non c’è nessuna poesia in questo, nessun idillio da esaltare. «La romantizaciòn de la cuarantena es privilegio de clase!», si legge su uno striscione argentino. Sì, non c’è nessuna bellezza né romanticismo in questa condizione, soltanto una qualche incerta strategia di sopravvivenza umana.
C’è un’altra urgenza che prenderà sempre più corpo nelle prossime settimane, quella che Massimo Cacciari racchiude in una domanda: «L’emergenza perenne alla fine “sospenderà” parlamenti e elezioni, o ne dimostrerà l’inefficacia. È questa la tendenza generale?».
Se ne sono accorti in pochi, e ancor meno ne hanno parlato, ma la Costituzione italiana risulta in questo momento di fatto sospesa in alcuni suoi diritti fondamentali, sine die, senza data scandenza, a colpi di Dpcm, di decreti ministeriali della presidenza del Consiglio: il diritto di movimento (articolo 16), il diritto di riunione (articolo 17), il diritto di associazione (articolo 18), il diritto di esercizio in pubblico di culto religioso (articolo 19). È vero che per ognuno di questi diritti la stessa Costituzione prevede una sospensione, per esempio la libertà di movimento può essere limitata «per motivi di sanità o di sicurezza», e che tutti i provvedimenti presi dal governo sono pienamente all’interno della legalità costituzionale. Ma se in altri tempi anche un solo di questi diritti fosse stato sfiorato, ci sarebbero stati i cortei in piazza. Ed è stato un intervento discreto del presidente della Repubblica Sergio Mattarella a far sapere che il Parlamento non può restare chiuso, neppure in una situazione di emergenza, anzi. Quando fu eletto al Quirinale, cinque anni fa, mi venne da pensare che sarebbe stato un invisibile angelo custode della Repubblica. Oggi lo è ancor di più. Perché le istituzioni servono proprio ora che c’è la necessità. Compresa l’istituzione della stampa democratica, che altrimenti diventa «una macabra grande edizione», come scrisse Aldo Moro nel suo memoriale dal covo delle Brigate rosse.
Oggi abbiamo la responsabilità di accettare tutto in nome della salute pubblica, abbiamo il dovere civile di tutelare la nostra sicurezza dal contagio e quella di chi ci sta accanto, accettando i sacrifici individuali che ci vengono imposti, ma abbiamo anche il diritto di dire che restiamo vigili e che ci stiamo accorgendo di quanto succede. Che l’Italia, democrazia repubblicana e costituzionale, ha dentro di sé, nella sua storia, nelle sue reti sociali e nel suo pluralismo, nel suo senso di cittadinanza le risorse di popolo per affrontare l’emergenza. Che un sistema democratico che si affida alle scelte di tutti non potrà mai diventare, neppure come effetto involontario di decisioni necessarie, lo «spazio chiuso» della peste descritto da Michel Foucault: «tagliato con esattezza, sorvegliato in ogni suo punto, in cui gli individui sono inseriti in un posto fisso, in cui i minimi comportamenti sono controllati e tutti gli avvenimenti registrati, in cui ogni individuo è costantemente reperito, esaminato e distribuito tra i vivi, gli ammalati e i morti. Alla peste risponde l’ordine: la sua funzione è di risolvere le confusione. A ciascuno prescrive il suo posto, a ciascuno il suo corpo, a ciascuno la sua malattia e la sua morte».
La differenza tra quei tempi e i nostri, tra quei corpi e i nostri di cui parla Giuseppe Genna in un’altra puntata del suo breviario metropolitano ai tempi del virus, tra un potere militarizzato, onnipresente e onnisciente che domina sulle vite in nome del bene e della salvezza, naturalmente, e il potere esercitato in un sistema democratico è nel nostro caso che le scelte devono essere il più possibile comunicate e condivise. È una questione di dirsi pienamente la verità, la prima a cadere in tempi di guerra o di epidemia. Il disinteresse o il silenzio su ogni forzatura è comprensibile per chi lotta con la vita e con la morte, meno per chi ha la responsabilità di interpretare l’opinione pubblica. L’emergenza democratica corre parallela a quella sanitaria, chiama in causa tutti noi, il nostro modo di stare in questa condizione, i nostri valori, in cosa crediamo.
Oggi avremmo il disperato bisogno di dare un senso a quanto stiamo vivendo, ma negli ultimi anni le strutture di senso sono state abbattute, la famiglia, le ideologie, le appartenenze politiche, sindacali e associative, le fedi religiose, a volte nel tripudio, perché erano rifiutate come legami oppressivi, da sciogliere in nome della libertà individuale. Ora che manca il senso, contrabbandato per la felicità immediata, senza vincoli di nessun tipo, ci sorprende essere pronti a sacrificare la nostra libertà individuale, in nome della salute pubblica, compulsiamo gli scienziati scambiandoli per oracoli o indovini (chiediamo: quando finirà, fino a quando durerà?) e ci ritroviamo spiritualmente disarmati davanti all’irruzione improvvisa e dolorosa del Male.
C’è un’igiene del corpo che va rispettata severamente, pena la possibilità che a cadere nella malattia siano i nostri cari, le persone più vicine e poi le più lontane. Ma accanto a questa c’è da serbare un’igiene della mente, un’igiene dello spirito, che significa mantenersi lucidi e razionali di fronte a una situazione che ci mette in gioco come nessuno si sarebbe mai aspettato, che vuol dire rifiutare ostinatamente di recintare il pensiero, di rinchiudere l’anima, per così dire, oltre il corpo. Dobbiamo fare l’opposto di quanto siamo costretti a compiere con il “distanziamento sociale”, orrenda espressione: ovvero avvicinarci, anche se non possiamo farlo fisicamente, contaminarci, renderci meno immuni l’uno dall’altro, farci toccare dagli interrogativi e dalle diversità.
Nei prossimi giorni difficili, il Picco del virus, non avremo principi né capi né luoghi, solo un po’ di misericordia. Vinceremo con la normalità, non con l’eccezionalità. Con le nostre risorse personali: leggete l’articolo di Costanza Savaia per capire cosa voglio dire. E, sul piano collettivo, con le istituzioni che sono il senso laico del nostro stare insieme. Mentre, intanto, mai come in queste giornate, la primavera tarda ad arrivare.