Oggi lo scacchiere in cui si muove la politica è un altro. Estrapolare quelle parole da quel contesto le rende inutili e perfino incomprensibili. Se non come l’orpello che serve a quanti hanno pochi argomenti dalla loro
Smettiamola di citare Aldo Moro. Lo dico prima di tutto a me stesso e al direttore Marco Damilano. E poi ai tanti che magari hanno meno consuetudine e/o meno affinità con il lessico moroteo, eppure non rinunciano ad aggrapparsi a qualcuna delle sue frasi per abbellire le loro gesta e pavoneggiarsi con la sua prosa. Smettiamola di farcire ogni discorso, ogni intervista, ogni editoriale, ogni riflessione con qualche parola trafugata dalle molte e molte che a suo tempo Moro pronunciò - e per le quali se ne ebbe allora fraintendimenti e incomprensioni.
Le citazioni di Moro sono come il fiocco che impreziosisce i nostri pacchetti, il prezzemolo che condisce le nostre pietanze, la ciliegina che guarnisce le nostre torte. Non c’è occasione per la quale non torni buona una sua frase. Che si tratti del coraggio o della prudenza, dei tempi che devono maturare o piuttosto dei tempi che si mettono a correre, degli avversari che non si possono aggredire o degli amici che non si devono processare, dei cambiamenti che vanno promossi o della stabilità che va puntellata. E ancora, e ancora, e ancora. Un vero e proprio assalto agli archivi dove si può trovare tutto quello che serve. Basta solo piegarlo alle circostanze del momento e alle convenienze -magari assai transitorie- degli interessati.
Il fatto è che però Moro era figlio di una stagione. E noi oggi ci troviamo in un altro tempo. Le sue frasi avevano un senso nel contesto di quegli anni. Offrivano una bussola a una politica che si muoveva su quello scacchiere. Oggi lo scacchiere è un altro. Estrapolare quelle parole da quel contesto le rende inutili e perfino incomprensibili. Se non come l’orpello che serve a quanti hanno pochi argomenti dalla loro.
Peraltro non sarà inutile ricordare che ai suoi tempi Moro era criticato e perfino vituperato proprio per il suo linguaggio. Fumoso, astruso, ambiguo. Tale non era, per la verità. Ma i suoi molti avversari lo raccontavano come un incantatore di serpenti. A volte con una sorta di ammirazione, più spesso con un vero e proprio raccapriccio.
Era il linguaggio di un uomo potente, che faceva la differenza e si esponeva a polemiche e fraintendimenti a volte anche sgradevoli. Come è giusto che sia. Ora invece si affaccia sulla scena, per interposte citazioni, un altro Moro. Edulcorato, sminuzzato, stiracchiato di qua e di là, buono per tutti gli usi. Un oggetto di consumo logorato da una politica che non sa più produrre cose nuove. E pertanto deve aggrapparsi a frasi d’altri tempi per spiegare se stessa, le sue giravolte, i suoi funambolismi.
All’epoca Moro si doleva di non essere abbastanza ascoltato, né abbastanza capito. Riteneva di parlare chiaro, e che semmai la cortina fumogena fosse alzata da chi lo interpretava nei modi che a lui non garbavano. Ma è probabile che si troverebbe in imbarazzo ancora maggiore a scoprire oggi che i suoi lontani discendenti, e anche quanti discendono da altri lombi (anzi, a volte soprattutto questi ultimi) infiorettano quasi quotidianamente i loro discorsi con qualche frase che lui aveva elaborato per spiegare tutt’altre cose.
Un uomo politico è legato soprattutto al suo tempo. È lì che mette radici, lì che elabora progetti, lì che spiega se stesso. Trascinarlo in un altro tempo, retto da regole e costumi tanto diversi, lo espone a una deformazione. Che nessuno merita. E tantomeno chi non ha più la possibilità di aggiungere una sola parola alle tante che ha pronunciato.
Dunque, facciamo calare il silenzio. Lasciamo che quel silenzio ci parli dei tempi andati e che qualche altra parola, magari più attuale, forgiata per l’occasione e non trafugata da Wikipedia, ci spieghi cosa siamo diventati.