Buio a mezzogiorno, si intitolava il romanzo di Arthur Koestler sulle purghe staliniane nel cuore del Novecento. Buio a mezzogiorno, all’alba dell’anno Ventunesimo del Ventunesimo secolo è il ritratto della democrazia americana. Il buio è scattato a mezzogiorno del 6 gennaio a Washington con l’assalto al Campidoglio, l’invasione del Parlamento su mandato diretto del presidente uscente Donald Trump. Il buio è anche lo stato in cui si consuma la crisi italiana, con la decisione di Matteo Renzi di togliere il sostegno a Giuseppe Conte. Transizione al buio negli Stati Uniti, dove il giuramento del nuovo presidente Joe Biden, il rito, la festa di inizio mandato, sta trasformando il 20 gennaio in una giornata di guerra, con la capitale in stato di emergenza: 15mila soldati della Guardia nazionale mobilitati, cinquanta città a rischio, scontri secondo le previsioni dell’Fbi. Crisi al buio in Italia, dove lo scontro personale tra due figure che hanno avuto e hanno l’onore di governare il Paese è stato più forte di ogni richiamo alla responsabilità del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell’opinione pubblica (sette italiani su dieci sono contrari, smarriti di fronte a uno scontro politico che va in scena con 80mila morti di Covid).
Conte aveva assicurato qualche mese fa che non avrebbe governato con «il favore delle tenebre». Le tenebre sono state evocate da Biden nel suo discorso più drammatico, mentre a Capitol Hill si sparava e si moriva. Le tenebre avvolgono due paesi alleati e fratelli, gli Stati Uniti e l’Italia: sono gli unici due paesi al mondo ad andare in crisi politica in piena pandemia, due paesi dotati di una Costituzione democratica, con il richiamo al popolo già nel preambolo e nell’articolo uno. Il popolo, non una massa informe e neppure il popolo immaginato dai leader incendiari che si impadroniscono di una sovranità che non è la loro. Il popolo, che è il contrario del populismo. Il popolo, in Usa e in Italia, che si muove nelle tenebre, nel buio di una tripla crisi: sanitaria, la più immediata e dolorosa, economico-sociale, con la povertà educativa e di senso che si affianca a quella materiale. E ora politica, istituzionale.
In Italia dopo un anno di governo dell’emergenza c’è l’emergenza di un governo. Lo stato di emergenza cominciò il 31 gennaio 2020, con la scoperta che il virus aveva contagiato una coppia di turisti cinesi a Roma, ma oggi sappiamo che il Covid era entrato in Italia almeno due mesi prima. L’emergenza di avere un governo è una questione formalmente aperta in questi giorni dalla spallata di Renzi, ma in realtà si trascinava da settimane, anzi, da mesi.
«Sento un rumore di fondo, un clima cupo», analizzava un uomo delle istituzioni, un servitore dello Stato, nella sua stanza ministeriale, la mattina del 12 gennaio, mentre sullo schermo acceso compariva il segretario del Pd Nicola Zingaretti, proteso nell’ennesimo tentativo di evitare lo scontro finale.
Il rumore di fondo è l’inquietudine, il disagio della società italiana. Un pezzo importante, ma che finora era rimasto invisibile, si è manifestato con gli scioperi e le assemblee degli studenti delle scuole superiori in molti istituti italiani. Seduti per terra di prima mattina, su gelide superfici di asfalto o di pietra, silenziosi e pacifici, si sono visti i volti delle ragazze e dei ragazzi che chiedono futuro, sicurezza e presenza. Come le tre cose che, scriveva Leonardo Sciascia in “Morte dell’Inquisitore”, non devono mai mancare al prigioniero, incise con un graffito sui muri delle carceri del Sant’Uffizio a Palermo, lo Steri: Pacienza, pane e tempo. Pazienza ne è rimasta poca, il pane di uno studente è l’apprendimento ma anche la socializzazione, la possibilità di crescere insieme, condividendo anche le cadute e gli errori. Il tempo è l’eterno presente del Covid, che è confinamento nello spazio delle singole abitazioni, dei comuni e delle regioni, ma anche schiacciamento su un orizzonte temporale di incertezza senza prospettiva. Ne parla Giorgia Loschiavo, studentessa di 18 anni del liceo Gaetano Salvemini di Bari, nel suo DaD, il diario a distanza.
Un altro pezzo importante di società italiana di cui si parla pochissimo nel dibattito pubblico è il Nord che è stato dilaniato dall’invasione del virus e che rischia di ritrovarsi alla fine della pandemia impoverito, non più motore italiano ma di fronte all’inaspettato: il fantasma della povertà, il capitale sociale che si corrode, la retrocessione, la rabbia e la sfiducia. I grattacieli di Milano deserti per lo smartworking e le aree interne che tornano a riempirsi, un capovolgimento che da solo basta a mettere in cantina intere librerie di volumi e di analisi dell’ultimo decennio e accettare la sfida di ripensarsi.
È questo il rumore di fondo che non si ascolta a Roma. Chi ha responsabilità istituzionali, dal Viminale al ministero dell’Economia, ha una visione meno rassicurante di Conte di questo anno di guerra al virus. Sovrapposizioni di competenze, forzature, strappi di forma e di sostanza, mancato ascolto dei territori e della società civile. Chi vuole rilanciare il Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza, oltre le colonne dello scontro tra Conte e Renzi, della crisi politica, delle trattative sui ministeri, della ricerca di voti nelle aule parlamentari, ha un’arma formidabile a disposizione: riaprire il dialogo sociale, ascoltare il Paese, non con il Truman Show degli Stati Generali di Villa Pamphili, ma con le porte spalancate alle competenze e ai mondi vitali. Far entrare la vita nelle stanze dei palazzi, per lasciare fuori gli sciamani. È la società che fa da alternativa agli eserciti dei complottisti, dei sovranisti americani o italiani, è il riconoscimento delle disuguaglianze il punto di partenza, come scrive rispondendo ai suoi critici Fabrizio Barca.
Nel 2007 Francesco Vezzoli presentò alla Biennale di Venezia un’installazione rimasta nella memoria. Due video che scorrevano paralleli, con due candidati presidenziali che si chiamavano con lo stesso nome: Patrick Hill e Patricia Hill. Lui era interpretato dal filosofo superstar, il fascinoso Bernard Henri-Levy, lei da un’autorevole Sharon Stone. Lui si faceva fotografare con il papa e in mezzo ai militari, lei prendeva in braccio i bambini. Le voci si mescolavano, rimbalzando da uno spot all’altro insieme agli slogan («Make America strong», «The integrity and the power of ideas», «The need for the action», «Strong America free America», «A steady voice a determined leader», «The american dream»). Tutto era interscambiabile nella democrazia occidentale che si era trasformata in “Democrazy”: demo-pazzia. Ma è questa interscambialità delle identità culturali e politiche, la negazione dei conflitti sociali, il mantra che le soluzioni non sono né di destra né di sinistra, ad aver portato negli anni successivi alla recessione economica e al trionfo del populismo. Di questo discutiamo in questo numero speciale dell’Espresso con Ezio Mauro e Massimo Cacciari, Jill Lepore e Luciano Floridi.
Oggi Usa e Italia sono accomunati da un’altra schizofrenia democratica: la forza delle istituzioni che rovina in fragilità. Per l’Italia il rischio è sprecare l’ultima occasione, ancora una volta. Nel 1996-98, un quarto di secolo fa, l’Italia riuscì nella corsa per entrare nell’area euro grazie all’azione rigorosa del governo di Romano Prodi e di Carlo Azeglio Ciampi e al coinvolgimento della società, ma fallì poi negli anni successivi, nel processo di riforme richiesto dall’ingresso nella moneta unica. E il governo dell’Ulivo cadde prima di far nascere il partito dell’Ulivo. Oggi il Paese rischia di aver retto alla prova più brutale, l’aggressione del virus, ma di soccombere di fronte alla necessità della ricostruzione e all’ondata di protesta sociale che seguirà alla fine dei ristori e dei bonus e all’inizio dei licenziamenti.
È questo il rumore di fondo, ignorato dalle alchimie e dagli scontri di Palazzo. È la Demopazzia all’italiana. Sul piano elettorale si manifesta con il voto alla Lega di Matteo Salvini e più ancora con quello per Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, che nei sondaggi è stabilmente sopra il Movimento 5 Stelle e ormai vicino al Partito democratico. È il Pd, il partito del sistema, ma anche dei territori e di una rete di rappresentanze, la forza più in pericolo. La minaccia letale di finire sotto le macerie della crisi. È dunque il Pd che deve fischiare la fine della partita tra i due leader virtuali Conte e Renzi, i due ologrammi che ipnotizzano i media e che portano il Paese a uno scontro assurdo. In attesa che nasca il partito della Ripresa e della Resilienza, il partito che ancora non c’è. Solo così si sconfigge il buio e si diradano le tenebre.
Questa settimana Roberto Saviano si congeda dai lettori della sua rubrica, L’Antitaliano. Lo ringrazio per questi anni di impegno intellettuale e civile comune, per il suo sguardo partigiano e critico, come è stato il giornalismo di Giorgio Bocca. Noi continueremo.