Lo stile di Letta. L’esistenza di Di Maio. Il cinismo di Renzi. I conti col berlusconismo. Il centrosinistra da ricostruire. Franceschini «che è come quella pubblicità: dove c’è maggioranza c’è Dario». L’ex ministra e parlamentare parla a tutto campo. E su chi la vuole al Colle ironizza: «Sto già scrivendo il discorso, come Casini»

Adesso che tanti fanno il suo nome tra i papabili per il Colle, non c'è verso di stanarla. La prendi alla larga e lei, seduta in una poltrona della Domus Mariae, sede storica dell'Azione Cattolica e ora albergo di cui comunque riconosce ciascuna stanza dalla forma delle finestre, risponde placida: «Una donna capo dello Stato? Lo dico dai tempi di Tina Anselmi». Anno di grazia 1992. Vai dritto alla domanda e lei vira al sarcasmo: «Quirinale? Sto già scrivendo il discorso». Rosy Bindi, 70 anni di cui 24 da deputata, nata nell'Azione cattolica e nella Dc, dove si affermò nel tempo di Tangentopoli, ministra della Sanità e della Famiglia nei governi Prodi, tra le poche capaci di farsi largo nel maschilismo pre quote rosa, unica donna a candidarsi alle primarie Pd (2007, mezzo milione di voti), la prima ad esserne presidente, due nemici giurati (lo diciamo per chi ravvisa somiglianze): Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Nella Dc con Casini, nella Margherita con Enrico Letta, amica da sempre di Sergio Mattarella, è un altro pezzo pregiato che il Pd si è perso per strada senza che si sapesse esattamente perché. Ma sapendo con certezza per chi: Renzi, appunto, da cui la divide tutto (anche le immagini: sono finiti solo una volta nella stessa foto, per caso) sin dal 2012, quando lei, presidente del Pd, perse la battaglia dei contrari a modificare lo statuto dem per far sì che lui partecipasse alle primarie. Chi c'era, racconta che alle preoccupazioni dell'allora segretario, Pier Luigi Bersani («poi rischiamo che se ne vada e si faccia un partito suo»), lei avesse risposto con una previsione leggendaria: «Vedi se non finirà che dovrai fartelo tu, un partito», disse al futuro fondatore di Articolo 1. Scomparsa per anni dalla prima fila, ha rifatto capolino alle suppletive a Siena. Ma sogna di andare oltre il Pd, che di fatto giudica irriformabile: l'affossamento del Ddl Zan è per lei la prova di quanto ciò sia necessario.

 

Dopo la vittoria nelle città il Pd sembrava andare a larghe falcate verso l'Ulivo 2.0. E invece è arrivata la gelata del Ddl Zan.
«Non guardate me, io sui diritti civili ho già dato a suo tempo. Nel primo tentativo di regolare le unioni civili, i Dico, che poi fallì per colpa degli estremismi del Family Day di piazza San Giovanni, più quello di una certa sinistra. Avendo preso botte di qua e di là, me ne sono stata in religioso silenzio. E non entro nel merito: dico solo che è stato consumato un atto di cinismo».

Alludiamo a Matteo Renzi?
«Il tentativo di mediazione da parte di Letta è stato forse tardivo. Ma anche se l'avesse fatta prima, visto come si è comportato il capo di Italia Viva, cosa sarebbe cambiato?».

Da premier Renzi rinunciò a pezzi di maggioranza e pezzi di testo, pur di portare a casa le Unioni civili.
«Intendiamoci: sulla tattica è un genio. Per forza: non ha scrupoli, è facile così. Ma con chi avrebbe dovuto sedersi al tavolo Letta? Per questo dico che, da questa vicenda, va tratta un'unica lezione: non si fanno le ammucchiate, bisogna aprire una fase di ricostruzione della sinistra. E il ddl Zan è un segnale preciso: attenti a parlare dell'Ulivo e a ritrovarsi nell'Unione».

Cioè si rischia il pantano?
«Ciò che è accaduto al Senato è un campanello di allarme molto chiaro, che va interpretato da chi pensa a una coalizione che si chiama “Ulivo” ma poi si traduce “Unione”. Una volta si diceva: da Mastella a Ferrero, ora da Calenda a Fratoianni».

A Luigi Di Maio.
«Al Movimento Cinque Stelle, guidato da Conte, anche per superare le differenze tra Luigi Di Maio e Roberto Fico. Comunque i rischi li abbiamo appena visti. È vero che è difficile cambiare la legge elettorale e che, se si vota con quella meraviglia che è il Rosatellum, la tentazione di fare coalizioni ampie viene a tutti: ma mi pare che si debba distinguere tra gli accordi per una maggioranza, e un progetto politico. Rischiamo di non fare tanta differenza rispetto al passato. Con una variabile a sfavore».

 

 

Faccia indovinare.
«Il cinismo di Renzi».

Bignami per chi non sa o non ricorda. Cosa era l'Ulivo e cosa era l'Unione?
«L'Ulivo nel 1996 era un disegno basato sulla sintesi tra le culture politiche, un progetto per l'Italia e l'Europa: ha avuto una stagione molto breve. L'Unione, nel 2006, fu il tentativo di unire il campo del centrosinistra, anche con lo scopo - sapendo che non era l'Ulivo - di creare con l'esperienza di governo più coesione, contro una destra non meno divisa ma più capace di neutralizzare le sue differenze».

Perché fallì?
«Di fatto c'era solo il governo che lavorava con il desiderio di andare avanti: dietro però non c'era un progetto. E del resto sarebbe stato difficile mettere tutti insieme. Ricordo ministri che guidavano piazze contrapposte. Quasi tutti i capi politici erano al governo, facevano il doppio mestiere».

Morale per l'oggi?
«Capisco sia una buona cosa darsi l'obiettivo di vincere, però il centrosinistra dovrebbe aver imparato che non vincerà nulla se non c'è un progetto condiviso e una classe dirigente che vuol superare le divisioni».

Da dove bisognerebbe ricominciare?
«Nonostante l'astensionismo ci sarebbero i materiali, le energie: penso al mondo cattolico, di sinistra, che ha radicamento sul territorio eppure non ha casa, interlocutori. Navigano tra tentazioni di esperienze identitarie, mentre avvertono tutti che la sede giusta sarebbe una forza politica capace di esser inclusiva».

E questa forza non è il Pd?
«Oggi no. Non è riconosciuto tale. E paradossalmente, quello zoccolo duro di elettori che ha è frenante, perché dici: quelli ci sono comunque. Ma non ha dentro l'innovazione, non è inclusivo, non si apre. Si fa forte di quello che ha. È un patto di potere»

Come è accaduto per esempio a Roma, con la candidatura di Gualtieri?
«È l'unica cosa su cui sono d'accordo con Calenda, quando non voleva accordi di potere con il Pd di Bettini, Astorre e Mancini. Ma Gualtieri è una bravissima persona e farà bene. Non è questione di oggi. Già dai tempi di Zingaretti mi permisi di dire che serviva aprire una fase costituente: ma c'era grande fretta di superare Renzi, che invece poi non è stato superato».

È questo il momento della resa dei conti?
«Quanto meno si tratta di trarre le conseguenze. Siccome i possibili interlocutori della sinistra fanno il gioco delle esclusioni reciproche, bisogna scegliere. Su un progetto. Letta dovrebbe avere chiaro con chi ha a che fare, questo dovrebbe averlo imparato. È anche un ragazzo sveglio»·

Per entrare nel futuro bastano le Agorà?
«Le Agorà vanno bene, meglio di stare chiusetti nella propria stanzetta. Ma sembrano una consultazione: mentre gli interlocutori dovrebbero essere i protagonisti. C'è da ricostruire un campo, difficile che avvenga se un partito fa gli inviti. Il Pd dovrebbe usare questo tempo per andare oltre se stesso, costruire una grande forza di sinistra nel Paese».

Ci può stare anche il M5S?
«Per me sì, andrà chiesto a loro. I flussi elettorali dimostrano che i Cinque Stelle sono una costola della sinistra. Penso sia possibile ricucire quello strappo, però non unendo solo le sigle: perché altrimenti non si fa chiarezza, ed è quella che al centrosinistra manca».

Ma le elezioni sono andate bene, no?
«Era anche difficile perdere a Roma, a Milano, a Napoli. Ma una cosa sono le grandi città, una cosa i centri medio piccoli. È un'altra storia. E sulle grandi questioni la destra una sua posizione ce l'ha, bene o male, fa capire cosa vuole. La sinistra dovrebbe essere più esplicita, avere più coraggio: credo ci sia troppa preoccupazione di non guadagnare consenso, se si è radicali nei contenuti».

E invece?
«Se io dico agli italiani che le vite in mare si salvano e punto, la gente lo capisce».

Sembra di sentire Elly Schlein.
«In un Paese in crisi demografica come il nostro il futuro sta nell'integrazione, l'Europa l'ha capito da un pezzo. E sui temi del lavoro. Si rimettono o no in discussione alcune parti del jobs act? Si ha il coraggio? Si parla tanto del futuro dei giovani: che si chiama scuola, lavoro, ricerca. Sulla sanità pubblica una parola chiara la vogliamo sentire? È il momento di decidere, perché il piano inclinato che ha preso l'Italia porta alla privatizzazione».

E tutto ciò dovrebbe farlo Enrico Letta? Venite dalla stessa cultura politica, ma avete approcci opposti. Esempio: nel 2007, in mezzo a una battaglia tra Prodi e Rutelli, lui diceva di sentirsi sia prodiano che rutelliano, lei di non essere d'accordo con nessuno dei due.
«Siamo sempre stati dalla stessa parte, con delle differenze. Anche da candidati alla segreteria del Pd, nel 2007, io difendevo gli anni Settanta, lui gli anni Ottanta. E non solo per un fatto anagrafico: io ero concentrata sul periodo delle grandi riforme, lui quello delle opportunità - che per me era la Milano da bere. Quando era presidente del Consiglio e si cominciò a parlare di Congresso del Pd, gli consigliai di venire in Direzione e minacciare le dimissioni, contro Renzi. Lui non lo fece. Ma sono passati molti anni».

Un altro stile.
«Speriamo di dire che lo “aveva”, un altro stile. Chi è segretario deve fare opera di ascolto e di sintesi, sì, ma ora serve dare una linea precisa, con coraggio. Si è vinto le elezioni perché le periferie non sono andate a votare? Questo ci dovrebbe dire molto. Visto che sono stati a casa, è ora di ricominciare a parlarci».

Lei protestò contro l'unanimismo che portò Zingaretti alla guida del Pd. Ma anche Letta è stato acclamato all'unanimità. Che differenza c'è?
«Attorno a Zingaretti non ci fu solo unanimismo: vinse il congresso grazie a quelli che fino al giorno prima avevano appoggiato Renzi. Fu un'operazione politico-scientifica. E infatti non si sognarono di esporre icone anti-renziane: io ad esempio non ho mai ricevuto una telefonata».

A chi stiamo alludendo?
«È come la pubblicità: dove c'è Barilla c'è casa. Dove c'è maggioranza c'è Franceschini»

Il leader di Areadem c'è anche adesso.
«È diverso. A marzo, dopo le dimissioni di Zingaretti o chiudevi bottega, o cambiavi schema. Poi, siccome uno lo sa come è stato eletto, si regola di conseguenza: e Letta ha parlato infatti di comportamenti radicali».

Lei non ha più partecipato alle scelte del Pd. Tornerebbe alle Direzioni del partito?
«Tornerei a iscrivermi solo per votare una mozione che dice di andare oltre il Pd per ricostruire la sinistra italiana».
Con il governo Draghi le Camere sono ridotte ancora di più a ratificatrici delle scelte del governo. Che ne pensa?

«Io sono parlamentarista, il populismo si combatte con la democrazia rappresentativa. Ma è dai primi anni 90 che l'Italia supera le fasi difficili così. Il primo è stato Scalfaro, che ha chiamato il governatore della Banca d'Italia, dopo il governo Amato. Un momento delicatissimo: il governo Ciampi, ad esempio, coincide con la fase della mafia stragista, addirittura con il black out a palazzo Chigi, quella notte delle bombe in cui San Macuto era l'unico palazzo istituzionale in cui erano aperte le comunicazioni. Continuiamo a passare momenti difficili, ogni volta il capo dello Stato ha risolto le strettoie affidando alla politica la possibilità di soluzioni come quelle di Ciampi, Dini, Monti. Però, persone all'altezza del compito ci sono: le classi dirigenti non si formano solo nei partiti. E la politica è in grado di sostenere percorsi così».

Non è invece un segno di debolezza?
«Questa fase è frutto delle capacità di Draghi, che è all’altezza non solo da tecnico, ma perché si sta muovendo con un metodo politico, e anche del senso di responsabilità delle forze politiche. E i partiti dovrebbero approfittare del momento per fare il loro mestiere, visto che in cucina c'è chi lavora».

Draghi al Quirinale?
«Penso che debba restare a Palazzo Chigi. È utile lì e, soprattutto, nel disegno istituzionale dell'Europa il dopo Merkel si chiama Draghi. Nel ruolo di presidente del consiglio, perché l'Ue è ancora l'Europa dei governi. Perché grazie a Dio non siamo la Francia e non possiamo diventare semi-presidenzialisti in questo modo. Capisco d'altra parte che questo passaggio è talmente delicato che forse l'unico modo è una figura come lui, capace di dare al Paese un momento di grande unità».

Per tanti l'unità, una pacificazione, potrebbe realizzarsi con Silvio Berlusconi.
«Ma che stiamo su Scherzi a parte?»

Lui stesso si è fatto avanti.
«E nessuno ha detto di no, certo: perché nessuno l'ha preso sul serio. A proposito: bisognerebbe rileggere questi anni, dal 1994 a oggi. Nel Pd non si è fatto i conti col renzismo, ma in Italia non si è fatto i conti con il berlusconismo. Ci vuole il coraggio di rivedere questa parabola, fatti giudiziari a parte - che poi secondo me per i politici non si può dire “a parte”, e sarà anche stato perseguitato dai magistrati ma di materiale ne ha offerto».

Fatti giudiziari a parte?
«Vogliamo ripercorrere cosa il berlusconismo ha voluto dire per la politica, per il senso della cosa pubblica? A tutt'oggi non c'è la “moderazione” di cui si parla: dopo l'assalto alla Cgil mai hanno detto la parola “violenza squadrista”. Forza Italia non s'è dissociata dalla destra, hanno firmato una mozione in cui si condanna “tutta” la violenza: e grazie! Ma qui è la Costituzione, non pinzillacchere. E poi, chi è il padre fondatore di questo schieramento? La destra è destra, qualcuno lo deve dire, e non c'è bisogno di chiamare Liliana Segre. Sarebbe bene che anche il Fatto non strumentalizzasse una donna così. E lo dico per la venerazione che ho nei suoi confronti».
Sarebbe tuttavia ora di avere una donna al Quirinale, non trova?

«Lo dico dai tempi di Tina Anselmi candidata di Cuore, ho ancora il giornale incorniciato»

E Prodi?
«Bisognerebbe prima fare la votazione e poi proporlo, dopo aver guardato tutte le schede. Non si può esporre la sua persona ancora una volta, dopo quello che è successo coi 101».

Da più parte si fa il suo nome, Bindi.
«Sto già pensando al discorso».

Fa del sarcasmo?
«Tutti i politici hanno pronto un passaggio del discorso da capo dello Stato, sa? Casini probabilmente se l'è già scritto tutto».

Casini non fa mistero delle ambizioni.

«Se penso a cosa non mi disse quando scrissi un editoriale sull'Unità di Walter Veltroni. Poi te lo ritrovo alle ultime politiche a farsi eleggere dal Pd, con tanto di foto in sezione davanti al poster di Gramsci e di Berlinguer!»

Candidarono lui, lei invece è rimasta fuori. Il Pd è il partito più maschilista di tutti?
«Quale partito non è maschilista? Il Paese stesso lo è ancora, anche se meno della politica. È l'irrisolto tema del rapporto con il potere, che a sinistra è ancora più problematico. Oggi la base della piramide sociale ha maggioranza di donne, ma come ti innalzi cambiano le percentuali. Dipende dagli uomini, sicuramente. Ma va detto, alle donne, che il potere si conquista con la competizione, mentre lavorare sulla cooptazione non è una soluzione: fra l'altro, anche lì, un uomo si fiderà sempre più di un altro maschio».

Letta ha voluto una vice donna, Tinagli.
«Una cara ragazza molto preparata. Come l'altro vice, Provenzano: preparato, di sinistra, ogni tanto fa qualche scivolata, è nelle cose».

Calenda può stare nella nuova sinistra?
«È stato un bravissimo ministro, il suo mestiere era quello».
E Di Maio? Lei ha citato Fico, ma è lui il vero uomo di potere del M5S.

«Di Maio esiste, è vero: ecco il problema».

Conte può essere il futuro del centrosinistra, come disse Zingaretti?

«Su di lui avevo quasi un pregiudizio, ma è diventato una risorsa. Una evoluzione il M5S doveva averla, ed è meglio che l'abbia con un personaggio come lui, capace di fare sintesi. Un domani potrebbe entrare nella squadra che si farà carico di questo Paese».

Addirittura?
«Pensiamo a cosa offre il mercato. C'è tanta gente che si impegna, fuori dalla politica: devono far parte del progetto, costruire un “noi” nuovo. Sarebbe anche un modo, per il Pd, per superare le correnti».

Bum!
«È molto più rischioso, le assicuro, andare avanti col tran tran».

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