Presidente ti scrivo
"Il solo vero augurio che vorrei fare anche a noi tutti, è che lei possa sentirsi, e addirittura essere, colei o colui che presiede e rappresenta l’Italia normale”. La lettera d’autore al prossimo inquilino del Quirinale dallo speciale dell’Espresso di domenica 2 gennaio
di Michele Serra
Cara o caro Presidente,
da quando sono al mondo sento parlare del mio Paese come di un ammalato cronico, sempre sull’orlo del collasso. Emergenza e crisi, parole che indicano situazioni straordinarie, sono invece, in Italia, tra le più ordinarie. Scandiscono le nostre giornate da molto prima della pestilenza, direi da un paio di generazioni. Forse da quando l’entusiasmo del Dopoguerra e della ricostruzione andò attenuandosi e infine venne ingoiato da quel «progresso scorsoio» così ben detto da Andrea Zanzotto.
Libreazione di Roma, giugno 1944 (foto archivio A3)
Non so dirle se questo perenne sentimento di crisi, e di imminente tracollo, dipenda da una radicata tendenza nazionale alla lagna e alla recriminazione, dall’enfasi scellerata dei media, da oggettive congiunture negative, da malesseri innescati dal benessere, infine da tutte queste cose assieme. So che il solo vero augurio che vorrei farle, facendolo a noi tutti, è che lei possa sentirsi, e addirittura essere, colei o colui che presiede e rappresenta un Paese normale, che si pensa normale, che si comporta normalmente. Una normalità non posticipata alla fine di una crisi o di un’emergenza, all’estinzione di questo o quel debito (i debiti, si dice, allungano la vita…), al raggiungimento di una inesistente concordia sociale, nell’infinita attesa che suoni la sirena del cessato allarme. No, una normalità immediata, stabile, capace di incassare i colpi e di registrare i successi con la stessa serenità. Di reggere i conflitti come parte integrante della vita (spesso i conflitti ne sono il motore) senza simulare una appiccicosa, melensa unanimità dei bisogni e delle intenzioni. Una normalità che inglobi tutte le crisi e tutte le emergenze, elabori i lutti senza stracciarsi le vesti e celebri le feste senza ubriacarsi.
L’equilibrio, Presidente: ce lo porti in dono, per piacere, che è quella la nostra più tremenda mancanza. Dia forma, nella semplicità solenne della sua carica, all’equilibrio. Ci aiuti a guardare a noi stessi senza nevrastenia e senza trionfalismo, che poi vorrebbe dire senza complesso di inferiorità e senza boria.
Quanto conti la forma è cosa che si impara da grandi, se non da vecchi. E poiché siamo un Paese sformato (con tanti talenti e pregi, ma sformato, disordinato, scomposto) speriamo che Lei abbia un’idea ben formata e molto composta del potere e dello Stato, e sappia trasmetterla agli italiani, questa idea, con le sue parole, con i suoi comportamenti, aggiungerei con il suo tono di voce, così come il suo predecessore Sergio Mattarella ha saputo fare con ammirevole costanza.
Ci siamo abituati bene, in questi ultimi sette anni, e non sarà facile, per Lei, mantenere il livello di signorilità e al tempo stesso di grande popolarità che il Colle ha raggiunto con il Suo predecessore. Signorilità e popolarità non sono per nulla in contrasto: è una lezione che smentisce, nel profondo, la retorica populista. Sia signorile, Presidente, non perché rappresenta l’élite ma per la ragione opposta: perché lei rappresenta il popolo, e il popolo non desidera e non merita una rappresentanza cafona, incolta, approssimativa.
Il suo compito non sarà governare, sarà di meno e di più al tempo stesso. Dovrà garantire il rispetto delle regole e della Costituzione: quella è la forma della Repubblica, nero su bianco, e la figura del Presidente ne è quasi la rappresentazione fisica. Il Presidente della Repubblica incarna, uno per uno, gli articoli della Costituzione. Li incarna quando esercita le sue funzioni istituzionali ma anche quando cammina per la strada, quando parla in televisione, quando è primo cittadino del Paese e dunque di tutte le città, le piazze, i luoghi pubblici. Quando Lei entra in una scuola, in un ospedale, in un carcere o in un teatro, entra l’Italia, entra la Repubblica.
È anche per questo che la Sua elezione, e le convulse e spesso oscure fasi che l’hanno preceduta, non è stata facile. Ben al di là degli equilibri politici e delle alchimie partitiche, tutti gli italiani sanno che si deve mandare al Colle una persona in grado di reggere quel peso, al tempo stesso enorme e impalpabile, che è la dignità repubblicana. Non si tratta solo di essere, come si dice, «al di sopra delle parti», anche perché non lo è quasi nessuno - semmai lo si diventa nel momento stesso in cui si entra al Quirinale. Si tratta di essere coscienti di un carico simbolico semplicemente unico: che non ha eguali. Il capo dello Stato è l’unico italiano che deve rappresentare tutti i cittadini, anche quelli che non votano, e tutti i partiti, anche quelli che non lo volevano al Quirinale.
Per questo ci siamo trovati in difficoltà: ci è sembrato, per molte settimane, che fossero pochissime le persone all’altezza. E qualcuno tra i candidati fosse così indegno della carica da non credere che potesse ambirvi. Forse pretendevamo troppo; forse davvero c’è un declino delle classi dirigenti; forse l’età impedisce di cogliere, nel succedersi delle generazioni, i valori, i talenti, la forza, le persone nuove, e si tende a credere che «una volta» ci fossero uomini di Stato molto più capaci e stimabili, oggi assai meno.
Anche di questo, Presidente, io spero Lei possa farsi carico: dimostrare, con il suo lavoro e con la sua stessa presenza, che non è vero che tutto peggiora e si degrada, e pensarlo è tipico di un Paese che sta invecchiando malamente. Lei, che è per ruolo l’incarnazione della saggezza portata dagli anni, ci aiuti a correggere questo errore, a difenderci da questa diffidenza per il futuro.
Ci dica che il futuro dipende da noi, perché ci capita di non crederci più. Buon lavoro, Presidente.