Il premier stila una squadra con bilancino perfetto tra i partiti, ma non tra i generi. In M5S spopola l'area Di Maio, di Conte non v'è più traccia. Torna Renato Brunetta. Andrea Orlando agguanta il terzo ministero. La sinistra riesce a esprimere solo maschi

Massimiliano Cencelli detto «Il Manuale» gli aveva sconsigliato del tutto di seguire le sue orme: «Per carità», ammoniva il democristiano che cinquant'anni fa normò i criteri di suddivisione tra partiti dei pesi in un esecutivo. Mario Draghi non deve averlo ascoltato perché, con il capo dello Stato Sergio Mattarella, ha stilato un governo d'equilibrio aureo, da prima Repubblica: otto tecnici, tutti in aree fondamentali, e quindici politici, cioè il doppio meno uno rispetto ai non-politici. Quattro ministeri per i Cinque stelle, partito con il maggior peso parlamentare, tre a testa per Pd, Lega, Forza Italia. Uno a Italia Viva e uno a Leu. Un bilancino perfetto. Con significativi ritorni e contromisure, come vedremo.

 

Da prima Repubblica, vi è da dire, è l'equilibrio di genere. Sono donne solo otto su ventitré ministri, e solo due saranno di peso: Luciana Lamorgese, riconfermata all'Interno, Marta Cartabia, alla Giustizia. Oltre a Cristina Messa, all'Università, le altre cinque sono titolari di ministeri senza portafogli, come si conviene alla solida tradizione italica, inscalfita anche stavolta. Apoteosi per la sinistra: incapaci di esprimere nomi femminili Pd e Leu, alla faccia della parità; per somma ironia, l'unica donna diciamo d'area è la tecno-renziana Elena Bonetti, già ministra dimissionaria del Conte due.

 

L'apoteosi del cencellismo, tuttavia, si raggiunge nel rispetto degli equilibri interni ai vari partiti. Splendido dal punto di vista della nitidezza ciò che accade nei Cinque stelle, che da partito di lotta e di governo diviene in toto partito dei ministeri, vale a dire feudo di Luigi Di Maio: riconfermato l'ex capo M5S agli Esteri, con Federico D'Incà ai rapporti col Parlamento, Fabiana Dadone alle politiche giovanili, Stefano Patuanelli all'Agricoltura, sparisce qualsiasi segno non solo di personaggi d'area per così dire ribelle, ma persino d'area contiana – di Giuseppe Conte si può dire non vi sia più traccia, a proposito.

 

Aureo bilanciamento nel Pd, dove ci sono due esponenti della maggioranza, e uno della minoranza. Due riconferme: l'ex margheritino Dario Franceschini alla Cultura, l'ex renziano Lorenzo Guerini alla Difesa. Una new entry: l'ex diessino Andrea Orlando, che dopo aver guidato l'Ambiente nel governo Letta, la Giustizia con Renzi e con Gentiloni, adesso andrà al Lavoro, raggiungendo così una varietà di esperienza ministeriale che possono vantare pochi altri, tra cui per dire Angelino Alfano, che fu ministro della Giustizia con Berlusconi, e poi degli Interni con Letta e Renzi, degli Esteri con Gentiloni.

 

Il terzetto di Forza Italia si potrebbe intitolare grandi ritorni, che è in fondo ciò che meglio può riuscire a un partito in sé arrivato al tramonto: torna (di nuovo) alla pubblica amministrazione Renato Brunetta, l'uomo che tra gli azzurri fu il più strenuo avversario dell'ultimo governo tecnico, quello di Mario Monti, e soprattutto dell’Europa che aveva voluto la fine dell'Era Berlusconi; torna Mara Carfagna, stavolta a guidare il Sud; torna Maria Stella Gelmini, alle Autonomie. Nessuna sorpresa dalle parti della Lega: c'è l'osannato e trasversale Giancarlo Giorgetti al Mise, torna il ministero del Turismo con Massimo Garavaglia e torna, stavolta alle Disabilità, Erika Stefani che già fu nel Conte uno.

 

Al contrario, saltano all'occhio alcune eloquenti contromisure, per lo più antigrilline. Sottosegretario alla presidenza del consiglio, cioè braccio destro del premier, è Roberto Garofoli, protagonista di scontri durante il governo gialloverde che culminarono con il famoso audio in cui il portavoce di Conte, Rocco Casalino, furioso con chi a suo dire non trovava i soldi per il reddito di cittadinanza, spiegava: « Nel M5s è pronta una mega vendetta. Tutto il 2019 ci dedicheremo a far fuori tutti questi pezzi di merda del MEF». Uno era appunto Garofoli, capo di gabinetto del ministro Tria. L'altro era Daniele Franco, allora ragioniere generale dello Stato, oggi ministro dell'Economia, fedelissimo di Draghi. Marta Cartabia arriva alla Giustizia, ministero da de-contaminare dopo i lunghi anni in cui a guidare il ministero c'era Alfonso Bonafede, il Guardasigilli che faticava a distinguere il 41 bis dal 416 bis. E non sfugge che all'Istruzione, al posto di Lucia Azzollina, vada oggi Patrizio Bianchi, coordinatore della task force per gestire la scuola a inizio della pandemia, poi dimissionario proprio in polemica con la ministra grillina. A tutto ciò possiamo aggiungere che il famoso ministero per la transizione Ecologica, cui tanto teneva Beppe Grillo, non è andato a un pentastellato ma a un tecnico, Roberto Cingolani. Altrettanto dicasi per un altro ministero assai importante per i Cinque stelle, l'innovazione tecnologica, dove siederà Vittorio Colao. Da questo punto di vista, in effetti, se il 2019 doveva essere l'anno della «mega vendetta», il 2021 pare quasi da ritorno dello Jedi.