Cosa ci dice l’esperienza di Mario Draghi da direttore generale del Tesoro
L’incarico ricoperto fino al 2001 fornisce alcune indicazioni sul suo modo di governare. E definisce il suo profilo di burocrate
La crisi ci mette molto più tempo ad arrivare di quanto pensavate, e poi si svolge molto più in fretta di quanto avreste pensato». È una frase che si adatta alle vicende politiche ma è stata inventata per le crisi valutarie dall’economista tedesco Rüdiger Dornbusch, professore del Mit per quasi trent’anni, autore di battute taglienti, morto di cancro nel 2002. Uno dei suoi coautori, Mario Draghi (“Public Debt Management: Theory and History, 1990), ama spesso ricordarlo.
Siamo ormai abituati a considerare Draghi uno statista internazionale, ma il suo ritorno sulla scena italiana dovrebbe portarci a riflettere su un passaggio: il suo mandato da direttore generale del Tesoro. È la cesura decisiva della sua carriera, l’incarico che ha ricoperto per più tempo dal 1991 al 2001. Draghi arriva a Via XX Settembre alla fine della guerra fredda, in una tempesta politica e valutaria, ed è un pilastro di continuità nell’incerta Italia degli anni ’90.
All’inizio, sembra che Draghi abbia esitato per un mese e mezzo davanti alla richiesta di Guido Carli e Carlo Azeglio Ciampi. Il rapporto con loro segna la sua strada al Tesoro. Con Carli per il negoziato di Maastricht e per i primi passi. Con Ciampi nella stagione dell’ingresso nell’euro. Già negli anni ’90, Draghi svolge un ruolo di traduzione tra politica italiana e politiche europee. Una funzione diplomatica e negoziale, che caratterizza ancor di più ai nostri giorni le strutture dell’economia.
La lezione più importante nel decennio di Draghi al Tesoro è operativa, e riguarda l’organizzazione: un tema che al nostro Paese spesso sfugge, tanto nel pubblico quanto nel privato, ma che è cruciale per trasformare le parole in cose. Negli anni di Draghi, la struttura del Tesoro viene ripensata. Le innovazioni sono numerose: la costruzione di un nucleo di economisti-consiglieri (il consiglio degli esperti), la nuova strategia di reclutamento, le politiche per stimolare e valorizzare le risorse interne. Per esempio, Maria Cannata, la matematica che per decenni ha custodito il nostro enorme debito pubblico e ha già promosso l’informatica al Tesoro negli anni ’80, trova il suo ruolo nella stagione di Draghi, curando la transizione all’euro e modernizzando la gestione del debito. Tra le “leggende” dei Draghi Boys, la più bella riguarda Dario Scannapieco, attuale vicepresidente della Banca europea per gli Investimenti. Studente della Harvard Business School a metà anni ’90, Scannapieco compra i diritti per utilizzare il logo dell’università e scrive lettere alle maggiori personalità istituzionali. Invece di fare soldi, vuole servire lo Stato. Draghi lo incontra e nel 1997 lo porta al Tesoro.
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Molta acqua è passata sotto i ponti di Draghi, dal tentativo di D’Alema di portarlo alla guida di Mediobanca dopo Cuccia, fino ai rapporti stretti con gli statisti europei. Uno dei più significativi, negli anni delle scelte politiche della Bce, è stato quello con Helmut Schmidt, il quale nel 2013, impegnato per far uscire la Germania dalla sua ritrosia, riconosce in Draghi «l’unico che tiene in vita l’Unione europea». Nel profilo geopolitico di Draghi, sicuramente il rapporto cruciale, mai affievolito, resta quello con gli Stati Uniti.
In questo panorama, l’esperienza del Tesoro resta decisiva, e distingue Draghi da altri tecnici o manager che non conoscono davvero lo Stato. Per questo sono impropri i paragoni con Monti, e forse con buona parte dei tecnici che potrebbero accompagnare un eventuale governo Draghi. Per un semplice motivo: Draghi è stato un vero burocrate. Questo termine in Italia è quasi sempre usato in senso dispregiativo. È un sintomo della nostra debolezza, un’autocertificazione di impotenza: un Paese non può crescere, né progredire, senza la sua burocrazia. Oggi c’è l’immane compito di mobilitarla e migliorarla, per liberare le energie sociali: è riuscito ai grandi servitori dello Stato, oggi dimenticati, come Donato Menichella. Da ex burocrate, Draghi ritroverebbe anche alcune sue vecchie “creature”. Per esempio, Sace, di cui è stato presidente e di cui ha guidato la trasformazione: il suo ruolo sulle garanzie è ancora più importante nel contesto della pandemia ed è stata riportata sotto il Mef, ma deve ancora trovare una nuova missione.
Ma non c’è tecnica senza politica, né democrazia senza partiti: anche questa è la storia di Draghi. A partire dal ruolo come consigliere di Goria e dal rapporto con Andreatta. Draghi stesso ha raccontato i suoi frequenti dialoghi nei primi anni ’90 con Andreotti, per il ruolo centrale del Divo tra i democristiani europei, «al livello di Kohl».
La verità è che, fuori dallo scaricabarile reciproco, tecnica e politica si ascoltano e completano sempre, come sistole e diastole del battito regolare di una nazione. Un battito che per l’Italia, come sappiamo, è incerto. Non appartiene solo a Draghi il compito di smentire un’altra delle sentenze di Dornbusch: «Le domande complicate hanno risposte facili, e sbagliate».