Bettini, Crimi, Rocco Casalino: quanti sono i Gattopardi sconfitti

La fine dei governi Conte ha lasciato un mucchio di macerie

In momento di distrazione e rischiamo di trovarceli candidati sindaci nelle città: a Roma Roberto Gualtieri oppure perché no lo stesso Nicola Zingaretti che già era atteso tredici anni fa, Andrea Orlando a La Spezia, Vito Crimi pronto l’anno prossimo per Palermo (a Volturara Appula si voterà solo nel 2024). Chi può escluderlo, a questo punto. Ammonisce, infatti, l’eterno Ciriaco De Mita: «Nei momenti di difficoltà ritìrati dove sei più forte. Se è la tua regione, fai il leader regionale, se è la tua città, fai il sindaco. Se non sei forte da nessuna parte, torna a casa da tua moglie. E aspetta». Un adagio praticato da colui che infatti oggi, ultranovantenne, fa il sindaco nella natìa Nusco, una parabola che in questi giorni potrebbe ispirare molti in evidente difficoltà. Assieme al balzo oltre i governi Conte - che per un attimo sono parsi moltiplicabili modello Invasione degli ultracorpi - l’arrivo in carne ed ossa di Mario Draghi ha lasciato macerie come dopo un uragano. Là dove una volte era tutta Speranza.


Ostinatamente avviticchiata attorno a Giuseppe Conte come non avrebbe fatto nemmeno per un Salvator Allende, la sinistra sembra accogliere la sua fine con uno sperdimento da svolta della Bolognina. La spaccatura, rito d’ordinanza, celebrata subito, neanche il tempo per Draghi di accettare l’incarico dalle mani di Sergio Mattarella: e già Nicola Fratoianni si diceva arroccato sul no, modello movimentista anti tecnocratico, già Roberto Speranza, ministro uscente, cognome degno di miglior causa, si stringeva ancor più alla famosa alleanza Pd-M5S-Leu. O a quel che ne resta, vista pure la reattività di ciascun partito preso per sé.


Spaventoso l’effetto accartocciamento che ha colto il Pd guidato da Nicola Zingaretti, più che ogni altro partito. Roba da far riecheggiare, dopo secoli, il famoso urlo di Nanni Moretti che echeggiò a Piazza Navona il 2 febbraio del 2002, esattamente 19 anni prima dell’arrivo di Draghi («Con questi dirigenti non vinceremo mai», attualissimo). Oltre al soffice, etereo immobilismo del segretario in persona - di cui già quasi tutto s’è detto, non potendosi come al solito dire granché - eccezionale in questi giorni è stato lo slancio verso la costruzione del futuro da parte di un politico pure non privo di abilità, come Andrea Orlando. Mentre Zingaretti, pensoso, rifletteva sull’asserita imminenza del ritorno alle urne, il suo vice, pur di affacciarsi nel nuovo governo, s’era risolto a mettere da parte il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, 35 anni, eccezione totale in un partito a vocazione gerontocratica - e giudicato, quindi, sacrificabile. Un gesto insomma di grande lungimiranza e generosità politica: e che non ha potuto realizzarsi soltanto perché poi il crollo del Conte ter ha tirato giù anche le ambizioni orlandiane (provvisoriamente, sia chiaro). Strepitosi certi toto-nomi, che val la pena di ricordare come emblema di un’epoca. Nel pomeriggio in cui l’alleanza giallorosa si arenava, una manciata di ore prima che Mattarella convocasse l’ex presidente della Bce, un nome si ostinava a brillare sul tavolo-fantasma del rimpasto: Goffredo Bettini, dirigente nazionale del Pd cui è stata informalmente affidata quasi una grossa fetta di gestione della crisi, era infatti in predicato di entrare nel mai nato Conte ter nientemeno che come sottosegretario alla presidenza: «in quota Conte» naturalmente. E di chi altri sennò?


Del resto Bettini si è fatto alfiere, in queste settimane, di una delle più spettacolari previsioni clamorosamente smentite dalla cronaca. Una previsione che ha plasmato con maggior decisione quando, alla vigilia del ritiro della delegazione di Italia viva dal governo, diede all’opzione responsabili un peso e una credibilità che sin lì non aveva: «Ci sono delle forze che vogliono contribuire nel segno di un rapporto con l’Europa e penso che al momento opportuno queste forze possano palesarsi», spiegò in tv a Barbara Palombelli che gli chiedeva di eventuali arrivi a sostegno di Giuseppi da parte di Forza Italia. Ecco, nel concreto, l’apporto azzurro si è incarnato nelle persone di Maria Rosaria Rossi, Renata Polverini, Andrea Causin. Non propriamente una folla. E il resto è andato come sappiamo: l’alternativa «o Conte, o voto» è stata per settimane agitata alla stregua di una minaccia in telefonate parallele: Bettini di qua, Gianni Letta di là. Con quale credibilità è stata la storia a stabilire.


Quanto al Pd di Zingaretti (o si dovrebbe dire di Bettini) è arrivato a prestare direttamente una sua senatrice, Tatjiana Rojc: passata di botto ai responsabili perché avessero il decimo soggetto per formare il gruppo, l’ha dovuto fare con una tale fretta da trovarsi a celebrare in Aula i cento anni del Pci da esponente non del Pd ma degli Europeisti-Maie-Centro democratico. Ed in questa veste ha citato in aula Antonio Gramsci: «L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera (…) ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare» eccetera, ha detto in Aula. Parole che potrebbero risuonare come clave contro quel Pd che, in nome dell’alleanza coi grillini e del premierato di Conte «unico punto di equilibrio», ha accettato di approvare all’ultima lettura il taglio dei parlamentari, dopo aver votato per tre volte no. Salvo che nessuna rivolta arriverà ad abrogare quella legge, soprattutto dopo una così intensa dimostrazione di abilità politica, da parte degli eletti.

Massimo D'Alema


Proprio con la fine di Conte, si è avuta del resto riprova di quanto possa essere virtuoso l’apporto di soggetti mitologici come Massimo D’Alema. Ricomparso quatto quatto dalle parti del premier-avvocato, come consigliere occasionale ma di rango, l’ex premier è finito anche lui nel grande vortice di anti-materia che a un certo punto ha cominciato a girare su Palazzo Chigi. E meno male che, come ebbe a dire in un’intervista a Repubblica, «non si manda via l’uomo più popolare del Paese per volere del più impopolare». Rottamato di nuovo da Renzi, direbbero i renziani. Risucchiato per l’ennesima volta dalla solita ambizione - comune al suo mondo - che ha il nome collettivo di egemonia culturale («Io impegnato a salvare Conte? No, ci pensa Bettini, uomo serio», chiarì nella stessa leggendaria intervista). Debolezze alle quali uno d’altra formazione, come il capodelegazione dem Dario Franceschini, ha saputo sottrarsi per tempo: un attimo prima dell’ingresso nell’Ade, se non altro.


In questo senso, a ben pensarci, è ancora più mostruoso l’esito della crisi innescata da Matteo Renzi, con l’obiettivo poi riuscito di rosolare Giuseppe Conte (obiettivo al quale uno come l’ex capo dei Cinque stelle Luigi Di Maio è meno estraneo di quanto non abbia smentito lui stesso, dacché ci sono stati giorni in cui a parlare di una fine prossima dell’avvocato del popolo erano solo due aree: renziani e dimaiani). In pratica quell’alleanza di governo tra M5S, Pd, Leu (e Iv), ancora non davvero incarnata e articolata in liste e voti - erano infatti in alto mare le trattative sulle prossime elezioni amministrative - si è cementata e trasferita nell’anti-materia, giù nel vortice di nulla che ha avvolto il piccolo impero di Rocco Casalino a Palazzo Chigi, portando via con sé coloro che ambivano governare quell’anomalia. Così, al momento buono, non c’era nessuno - tra tanti consiglieri - pronto a pensare di esprimere il proprio istituzionale sostegno al Quirinale, quando Mattarella proclamava fallita l’esplorazione di Roberto Fico e convocava Draghi. Sarebbe stato cerimoniale, mero sostegno tra istituzioni ma niente: da Palazzo Chigi non è volato un comunicato. E anche il Pd ha faticato non poco, a riprendersi dalla sorpresa: tanto che uno lesto come il governatore dem dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, è arrivato a ringraziare il capo dello Stato prima del vicesegretario dem Orlando. Coincidenza che si può tranquillamente indicare come il precoce segno del prossimo congresso Pd, quello chiamato ad archiviare l’era Zingaretti.

Il leader del Movimento 5 stelle, Beppe Grillo, e Alessandro Di Battista durante la conferenza M5S sull'acqua pubblica organizzata a Montecitorio presso l'aula dei Gruppi, Roma, 20 marzo 2017. ANSA/ CLAUDIO PERI

E se il mondo di Casalino è in caduta libera - un effetto liberazione salutato persino dal leader della Lega Matteo Salvini - il post-Conte ha gettato nella disperazione i Cinque Stelle. La crisi, e il suo esito, ha naturalmente favorito, e tiene al riparo, personaggi che giocano a fare i battitori liberi tentando di trarre vantaggio da uno svantaggio, come Alessandro Di Battista (non a caso si è affrettato descrivere Draghi come «apostolo dell’élite»). Leggiadria, quella dell’ex deputato, che deriva dalla certezza di non dover votare in Parlamento pro o contro un governo guidato dall’ex presidente della Bce. Si apre al contrario un baratro di dubbi per chi, nel M5S, ha sostenuto l’alleanza coi dem e, in ultimo, la sua versione dannunziana «o Conte, o morte». A partire dal leader accantonato Beppe Grillo, primo fautore della svolta giallorosa nell’estate del 2019, fino al perenne reggente Vito Crimi. Primo degli imbarazzi: chi è il capo? Chi parla a nome di chi? In una nave già in estrema difficoltà, i 191 deputati e 92 senatori sembrano in balia di un’alternativa impossibile, due strade sbarrate entrambe. Né con Draghi, né senza. Anche di questo, la notte in cui l’«apostolo dell’élite» arrivò rappresenta un emblema che vale la pena di tenere a mente. I vertici grillini s’affannavano infatti ancora, in quelle ore, a far di conto, tra gruppi e sottogruppi, per vedere se fosse stato possibile rimettere insieme quello che si era appena rotto. Arrivando persino a contattare le prime file del Pd, per sondare la possibile convergenza su ulteriori governi politici. «Ma voi ci state a votare no al governo Draghi?», si domandava ai dem. Come chi non sappia che si è fatta un’ora tarda, e cerchi ancora di racimolare i soldi per il biglietto di un treno che è già arrivato a destinazione.

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